"Scienza e Professione"
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N. 5, anno 2, Marzo  2005

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INDICE GENERALE

PILLOLE
- Vitamina K2 previene epatocarcinoma
-
Ultrasuoni in gravidanza: sono sicuri?
-
Diabetici: un popolo alla ricerca della cura ideale?
-
Si curerà l'AIDS come la Rabbia?
-
Alosetron efficace nella diarrea del colon irritabile
- Uso di beta 2 stimolanti short acting e rischio di morte negli asmatici
-
La colongrafia mediante TC delude rispetto alla colonscopia ottica
-
I contraccettivi combinati portano ad un aumento del peso corporeo?
-
Inutili i defibrillatori impiantabili negli infartuati?
-
Quanto sono efficaci i FANS nella gonartrosi?
-
Morte improvvisa
-
Anche il naproxene può aumentare il rischio cardiovascolare
-
La nortriptilina può aiutare a smettere di fumare.
- Peptide natriuretico  e rischio di eventi cardiovascolari e di morte
-
Il piercing è associato a comportamenti a rischio negli adolescenti americani
-
Raloxifene riduce il rischio di cancro mammario invasivo
- Deludenti i test fecali per la diagnosi del cancro del colon
-
Ostracismo a TOS: i ginecologi italiani non ci stanno
- Tegaserod efficace in stipsi da colon irritabile
-
L’ipertensione danneggia le funzioni cognitive, la terapia le preserva.
- La genetica dell’autismo
-
I disturbi dell' alimentazione: meglio i farmaci o la psicoterapia? 
- News prescrittive (dalla Gazzetta Ufficiale): (a cura di Marco Venuti)
 Lamisil, Daskil, Terbitef - Fristamin, Clarityn e Alorin  -


APPROFONDIMENTI
- Buon sangue non mente (Generalita' sulle applicazioni della genetica in campo forense)


MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA
Di Daniele Zamperini per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica.

- Cassazione: medici responsabili anche per "colpa lieve"   
- Assenza alla visita di controllo: i motivi devono essere "indifferibili" (Cassazione)
-
IVA e prestazioni sanitarie: la parola definitiva

- Il medico e la legge: cap. 10: Responsabilita' Professionale e dovere d' informazione (Avv. Nicola Todeschini)
- Il medico e la legge: cap. 11: La colpa lieve e la colpa grave   (Avv. Nicola Todeschini)


OLTRE LA PROFESSIONE:  OPINIONI E  PENSIERI  
-
La natura alla ricerca di un equilibrio (Di Massimiliano Fanni Canelles)


- LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti): Gennaio- Febbraio 2005
Su www.medicoeleggi.it/pillole/freeconsult.htm Marco Venuti mette a disposizione una serie di articoli su problemi connessi alla prescrizione dei farmaci.


PILLOLE


A - Vitamina K2 previene epatocarcinoma

La vitamina K2 (menaquinone) potrebbe essere un fattore protettivo contro l’epatocarcinoma nella epatopatia virale cronica

Secondo numerose ricerche la vitamina K2 potrebbe giocare un ruolo importante nel controllo della crescita cellulare. Partendo da questo presupposto, alcuni scienziati della Osaka City University hanno studiato gli effetti della vitamina K2 nello sviluppo dell’epatocarcinoma cellulare nelle donne con cirrosi virale. Lo studio ha coinvolto quaranta donne con cirrosi epatica virale che erano state ricoverate in ospedale tra il 1996 e il 1998. Originariamente lo studio era stato disegnato per valutare il ruolo della vitamina K2 nella perdita di massa ossea nelle donne con cirrosi virale.
Le pazienti sono state divise in due gruppi: uno è stato trattato con 45mg/die di vitamina K2, l'altro con placebo. Al termine del periodo di follow up l'epatocarcinoma si è sviluppato in due delle 21 donne che avevano ricevuto la vitamina K2 ed in 9 delle 19 trattate con placebo. Un'analisi multivariata aggiustata per età, transaminasi, albumina sierica, bilirubina totale, conta piastrinica, alfa-fetoproteina e trattamento con interferone alfa, ha indicato che il rischio di insorgenza di epatocarcinoma nelle donne trattate con vit. K2 era 0.13 (95% CI, 0.02-0.99; P = .05) rispetto alle donne trattate con placebo.

Fonte: JAMA 2004;292:358-361
Link: http://jama.ama-assn.org/cgi/content/abstract/292/3/358

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B - Ultrasuoni in gravidanza: sono sicuri?

Ripetute ecografie durante la gravidanza non comportano ripercussioni a distanza

Gli esami ecografici sono diventati di routine nel monitoraggio della gravidanza, pur in assenza di trials clinici randomizzati e controllati che abbiano valutato se l'esposizone ripetuta agli ultrasuoni può influenzare lo sviluppo del neonato o provocare disturbi a distanza.
In questo studio quasi 3000 donne gravide sono state randomizzate a ricevere 5 ecografie e un doppler dell'arteria ombelicale fra la 18° e la 38° settimana di gestazione oppure una singola ecografia alla 18° settimana. I bambini nati da queste pazienti sono stati seguiti e visitati regolarmente fino agli 8 anni. Sono stati esclusi dalla analisi i bambini nati con anomalie congenite oppure da gravidanze gemellari. Ad un anno il follow-up ha riguardato l'85% dei bambini arruolati mentre a 8 anni la percentaule era scesa al 75%.
All'età di un anno e anche in seguito l'accrescimento corporeo risultava simile tra i due gruppi di bambini (quelli sottoposti al protocollo che prevedeva ecografie mutiple e quelli sottoposti ad uno solo esame ecografico).
Non si sono registrate differenze neppure per quanto riguarda il linguaggio, la capacità di esprimersi, il comportamento e lo sviluppo neurologico.
Gli autori concludono che l'esposizione del feto a ritetuti esami ultrasuonografici può comportare un piccolo effetto sull'accrescimento fetale che però non ha ripercussioni sugli outcomes a distanza.

Fonte: Newnham JP et al. Effects of repeated prenatal ultrasound examinations on childhood outcome up to 8 years of age: follow-up of a randomised controlled trial . Lancet 2004 Dec 4; 364: 2038-44

Commento
La prassi ormai consolidata die seguire almeno tre ecografie durante la gestazione poteva, teoricamente, far nascere qualche dubbio sulla reale sicurezza di questi protocolli di monitoraggio della gravidanza. Questo studio fornisce dati tranquillizzanti: le donne possono essere rassicurate che l'ecografia è un esame innocuo e che può essere ripetuto più volte senza che il bambino corra pericoli immediati o abbia ripercussioni future.

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C Diabetici: un popolo alla ricerca della cura ideale?

E' noto che i pazienti diabetici hanno una frequenza molto elevata di complicanze vascolari di tipo cardiaco, neurologico e periferico.
Questo studio si proponeva di valutare il trattamento di una coorte di oltre 12.000 soggetti affetti da diabete tipo 2.
L'età media degli arruolti era di 64 anni, circa per il 45% erano donne e il follow-up è durato 5 anni.
Purtroppo i risultati non sono entusiasmanti: meno di un quarto dei pazienti era trattato con asa (o con un altro antiaggregante) o con statine e poco meno della metà riceveva un aceinibitore. Nei soggetti riconosciuti affetti da malattia coronarica la percentuale aumentava, ma di poco (il 37% riceveva aspirina, il 29% una statina e il 60% un aceinibitore) per cui anche in questo caso non si può dire che il trattamento fosse ideale. Addirittura gli autori hanno dimostrato che i pazienti che erano stati sottoposti ad una qualche forma di amputazione agli arti inferiori per una grave arteriopatia periferica non avevano più probabilità di essere trattati con antiaggreganti o statine di quelli non amputati.

Fonte: Brown LC et al. Evidence of suboptimal management of cardiovascular risk in patients with type 2 diabetes mellitus and symptomatic atherosclerosis
CMAJ 2004 Nov 9; 171:1189-1192

Commento:
Già lo storico studio UKPDS aveva dimostrato che i diabetici ottengono più beneficio dal trattamento aggressivo dell'ipertensione che della glicemia.
Tutta la comunità scientifica ha ormai riconosciuto che nel diabete l'equilibrio glicemico è importante ma da solo non basta a scongiurare le temibili complicanze cardiovascolari della malattia. I diabetici vanno considerati soggetti a rischio cardiovascolare molto elevato, praticamente paragonabili a degli infartuati, e, nella maggior parte dei casi, vanno trattati aggressivamente con farmaci che hanno dimostrato efficacia in questo senso, come le statine, l'aspirina e gli aceinibitori. Purtroppo come in molti altri campi della medicina, si assite ad un gap di trasferimento di conoscenze nella pratica di tutti i giorni e questo pone dei grossi punti interrogativi sulla efficacia delle moltissime linee guida nel cambiare i comportanti prescrittivi dei medici e nell'adeguarli alle nuove conoscenze.
Rimane da stabilire quanto di questi dati, riferiti alla realtà canadese, siano attuali in Italia.
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D Si curerà l'AIDS come la Rabbia?
Mediante trattamento vaccinale capace di inattivare il virus stimolando il sistema immunitario come nella rabbia, dopo due mesi la concentrazione dell'Hiv si è ridotta dell'80% e nel 44% dei casi, i livelli virali si sono mantenuti per oltre un anno del 90% piu' bassi di quelli basali.

La scoperta è del Prof. Jean Marie Andrieu, direttore del servizio di oncologia medica dell’ospedale europeo Georges Pompidou e del Dr Wei Lu, d’origine cinese, dell’IRD, Istituto di ricerca per lo sviluppo, entrambi già famosi per aver messo a punto nel 1999 il Muprovoma, un test molecolare di dépistage che permette di identificare la quasi totalità dei sottotipi conosciuti dell’AIDS (contro il 10-20% degli altri test che ignoravano fino ad allora la gran parte dei sottotipi di origine africana o asiatica).
Al contrario dei vaccini preventivi, destinati ad impedire l’ingresso di agenti patogeni nell’organismo sano, il principio di un vaccino terapeutico consiste nel rallentare, od interrompere definitivamente la progressione dell'infezione o delle sue conseguenze.
Le piste di ricerca scelte dall’equipe del Prof. Andireu e dal Dr Wei Lu consistono non nel far sparire il virus, ma nell'impedirgli di moltiplicarsi grazie ad un meccanismo vaccinale già usato per guarire dalla rabbia. Al fine di stimolare le difese immunitarie, i due ricercatori hanno pensato di lavorare sulle cellule dendritiche. Situate principalmente nei linfonodi, nella milza e, in minor misura, nel sangue le cellule dendritiche sono le "sentinelle" incaricate di scoprire la presenza di "intrusi" nell’organismo che indicano successivamente ai linfociti qual è il nemico da eliminare. Ma come evitare che i linfociti siano, a loro volta, infettati come nel caso dell’AIDS? Facendo in modo che le cellule dendritiche insegnino preventivamente al linfocita a proteggersi dagli antigeni presenti sull’involcro dell’HIV.
Nel 2002, il Dr Wei Lu prelevò del sangue di macachi, infettati dal SIV (l’AIDS delle scimmie), cellule dendritiche che mise a contatto con virus inattivato con metodi chimici. Il virus invase le cellule dendritiche, ma non fu in grado di riprodursi.
In collaborazione con l'Universidade Federal de Pernambuco (Recife), sono stati prelevati campioni di virus Hiv ed alcune cellule dendritiche da 18 pazienti sieropositivi, i cui livelli di virus nel sangue si erano mantenuti costanti nei precedenti sei mesi. Il vaccino e' stato preparato riempendo le cellule dendritiche di virus Hiv, inattivato. Quindi, le cellule sono state reinfuse a ciascun paziente. Dopo due mesi la concentrazione dell'Hiv si è ridotta dell'80% e nel 44% dei casi i livelli virali si sono mantenuti per oltre un anno del 90% più bassi di quelli iniziali La scoperta sarebbe in procinto di essere pubblicata su Nature.
Fonte: Valeurs Actuelles, 3547 - 19/11/04

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E - Alosetron efficace nella diarrea del colon irritabile

La terapia protratta a lungo con alosetron, un antagonista dei recettori serotoninergici, è efficace e sicuro nel trattamento della diarrea nelle donne con sindrome da colon irritabile.

Lo studio controllato, in doppio cieco contro placebo, è stato condotto per 48 settimane su circa 700 donne USA. L’efficacia è stata valutata in termini di sollievo soggettivo dal dolore/fastidio intestinale e dall’urgenza del tenesmo, nonché con misure oggettive quali la frequenza e la consistenza delle evacuazioni. Nel gruppo trattato con alosetron sono stati ottenuti miglioramenti sintomatologici significativamente superiori rispetto a quanto osservato nel gruppo placebo per tutti i parametri valutati. L’efficacia è risultata ancora migliore nel sottogruppo di pazienti che all’arruolamento presentavano episodi di tenesmo urgente in almeno 10 giorni su 14. Il profilo di tollerabilità del gruppo attivo è risultato simile a quello osservato nel gruppo placebo.
Fonte: Am J Gastroenterol. 2004;99:2195-203.

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F - Uso di beta 2 stimolanti short acting e rischio di morte negli asmatici

L'utilizzo di beta 2 agonisti a breve durata d'azione è associato con una più elevata mortalità nei pazienti asmatici.

Uno studio caso-controllo ha confrontato 532 soggetti deceduti per asma con 532 pazienti ricoverati per crisi asmatica e paragonabili per età , area geografica e periodo temporale della morte e del ricovero.
Dopo aggiustamento per vari fattori di confondimento gli autori hanno osservato che vi era una associazione positiva tra la prescrizione di beta 2 stimolanti a breve durata d'azione nel periodo che andava da 1 a 5 anni prima e il decesso (OR 2.05 con intervallo di confidenza al 95% di 1.26-3.33) mentre vi era una associazione inversa con la prescrizione di antibiotici e di steroidi orali. L'associazione tra uso di beta 2 stimolanti e aumento del rischio di morte sembra limitata ai soggetti di età compresa tra 45 e 64 anni. Lo studio ha permesso di osservare anche una associazione inversa per l'uso dei beta 2 agonisti a lunga durata d'azione e positiva per i teofillinici, entrambe però statisticamente non significative.
Fonte:
Anderson HR et al. Bronchodilator treatment and deaths from asthma: case-control study
BMJ 2005 Jan 15; 330:117

Commento di Renato Rossi
Già studi precedenti avevano prospettato l'ipotesi che l'uso di beta 2 stimolanti a breve durata d'azione potesse essere pericoloso nei pazienti asmatici. Tuttavia i dati erano di difficile interpretazione anche perchè gli studi avevano una potenza statistica limitata ed erano di tipo osservazionale.
In questo studio caso-controllo viene confermata l'associazione positiva tra uso di beta 2 a breve durata d'azione e aumentato rischio di morte mentre non ci sono evidenze negative per i beta 2 a lunga durata d'azione e gli steroidi.
Tuttavia, essendo anche questo uno studio ossservazionale, è difficile dire se questo significhi un nesso causale diretto tra decesso e beta 2 short acting o non si tratti piuttosto di un semplice indicatore (i soggetti con forme più gravi di asma, e quindi più a rischio di morte, usano di più i beta 2 stimolanti a breve durata d'azione).
In ogni caso questi risultati confermano, se ce ne fosse ancora bisogno, che i farmaci di prima scelta nell'asmatico sono gli steroidi inalatori con i beta 2 long-acting come farmaci importanti da associare quando necessario nel trattamento long-term, mentre i beta 2 short acting vanno riservati ad un uso saltuario al bisogno.

Commento di Luca Puccetti
L'utilizzo di beta 2 agonisti è spesso assai frequente soprattutto nei pazienti di basso livello culturale e di basso ceto economico. Pertanto più che una causa l'utilizzo di beta 2 short acting potrebbe essere una connotazione di una certa tipologia di pazienti. Inoltre proprio chi utilizza molti beta 2 a breve durata spesso non riceve una terapia adeguata e utilizza questi farmaci anche come automedicazione.

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G - La colongrafia mediante TC delude rispetto alla colonscopia ottica

Questo studio di riprometteva di valutare quale fosse la sensibiltà di clisma opaco, colonscopia virtuale e colonscopia ottica nel diagnosticare i polipi o le neoplasie del colon. A tal scopo sono stati reclutati 614 pazienti che avevano un test al sangue occulto fecale positivo, oppure anemia sideropenica o storia familiare positiva  di cancro del colon.
I pazienti furono sottoposti a clismaopaco, colonscopia virtuale e colonscopia ottica.
La sensibilità delle tre metodiche nell'evidenziare lesioni di 10 mm o più di diametro era del 48% per il clismaopaco, del 59% per la colonscopia virtuale e del 98% per la colonscopia ottica. Per le lesioni di 6-9 mm la sensibilità era rispettivamente del 35%, 51% e 99%. Gli autori concludono che la colonscopia ottica è di gran lunga più sensibile delle altre metodiche per svelare le lesioni neoplastiche e i polipi del colon.
Fonte:
Rockney DC et al. Analysis of air contrast barium enema, computed tomographic colonography, and colonoscopy: prospective comparison. Lancet, Published online December 17, 2004

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H - I contraccettivi combinati portano ad un aumento del peso corporeo?

Le evidenze disponibili non suffragano la credenza comune che i contraccettivi provochino un aumento di peso.

E' opinione diffusa tra le donne (e forse anche tra qualche medico) che la pillola contraccettiva faccia ingrassare.
Per rispondere alla questione è stata effettuata una analisi di trials clinici randomizzati e controllati in cui venivano usati contraccettivi estro-progesticini combinati. Per essere inclusi nell'analisi gli studi dovevano essere di buona qualità metodologica e prevedere l'utilizzo del contraccettivo combinato per almeno tre mesi. In realtà la qualità metodologica degli studi ritrovati (42 RCT) era generalmente modesta e la valutazione del cambiamento del peso corporeo era un end-point primario preso in considerazione da un solo lavoro mentre negli altri studi doveva essere calcolato. Comunque gli autori non hanno trovato alcuna dimostrazione che i contraccettivi portino ad un aumento del peso corporeo. Inoltre meno del 5% delle donne che avevano smesso il contraccettivo riferivano di averlo fatto perchè avevano riscontrato un aumento ponderale. Gli autori fanno notare però che questi risultati derivano dalla analisi di studi vecchi di decenni quando venivano usate dosi molto più alte di estrogeni.
Fonte: Gallo MF, et al. Combination estrogen-progestin contraceptives and body weight: systematic review of randomized controlled trials. Obstet Gynecol 2004;103:359-73.

Commento di Renato Rossi
Questo studio permette di poter rassicurare le donne preoccupate circa un possibile aumento di peso legato alla assunzione della pillola contraccettiva. E' perlomeno strano che ci dobbiamo basare su informazioni derivanti da studi molto vecchi. Tuttavia il fatto che oggi si usino dosaggi di gran lunga inferiori rende ancora meno probabile che l'uso dei contraccettivi abbia un qualche impatto sul peso delle pazienti.
Qualora una donna dovesse ingrassare durante trattamento con estro-progestinici la causa andrà quindi ricercata da altre parti (riduzione dell'attività fisica, aumento dell'introito calorico, ipotiroidismo, ecc.)

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I - Inutili i defibrillatori impiantabili negli infartuati?

Secondo uno studio l'uso routinario dei defibrillatori impiantabili nel post-infarto sarebbe sconsigliato in quanto riducono le morti aritmiche ma non la mortalità totale. Ma altri studi forniscono risultati diversi.

E' noto che i pazienti con pregresso infarto miocardico sono ad aumentato rischio di morte aritmica, specialmente nei mesi successivi all'evento. I soggetti più a rischio sono quelli con aritmie ventricolari minacciose, ridotta frazione di eiezione o alterazioni della frequenza cardiaca .
Nello studio DINAMIT, uno studio randomizzato in aperto, sono stati arruolati quasi 700 pazienti che avevano avuto un infarto miocardico da 6 a 40 giorni prima. Tutti i pazienti avevano una frazione di eiezione =< 35% e una ridotta variabilità della frequenza cardiaca o una frequenza media elevata registrata tramite elettrocardiografia dinamica. I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi, a uno dei quali venne impiantato un defibrillatore.
Durante un followup medio di due anno e mezzo non ci furono differenze per quanto riguarda la mortalità totale tra i due gruppi, anche se nel gruppo con il defibrillatore le morti aritmiche erano ridotte in maniera statisticamente significativa.
Fonte: Hohnloser SH et al for the DINAMIT Investigators. Prophylactic Use of an Implantable Cardioverter-Defibrillator after Acute Myocardial Infarction N Engl J Med 2004 Dec 9; 351:2481-2488

Commento di Renato Rossi
Da questo studio sembra quindi che l'impianto routinario di un defibrillatore nel periodo immediatamente successivo all'infarto miocardico non sia utile, neppure nei pazienti ad alto rischio di aritmie minacciose, a ridurre la mortalità totale in quanto, sebbene si riducano le morti aritmiche, si ha un aumento della mortalità da altre cause, così che il beneficio viene annullato. Da questo punto di vista si sono dimostrati più efficaci gli acidi omega 3 che  nello studio Gissi-prevenzione (GISSI-Prevenzione Investigators. Lancet 1999 Aug 7; 354:447-455) hanno ridotto non solo le morti aritmiche ma anche la mortalità totale, per quanto il risultato diverso potrebbe essere dovuto alla diversa consistenza del campione arruolato (più di 11.000 pazienti nello studio italiano, meno di 700 in questo studio sui defibrillatori).
I cosidetti ICD (implantable cardioverter defibrillator) originariamente erano stati pensati per i soggetti sopravvissuti ad un episodio di arresto cardiaco o di fibrillazione ventricolare. In questi pazienti gli studi mostrano un NNT da 9 a 24 (Connolly SJ et al. Meta-analysis of the Implantable Cardioverter Defibrillator Secondary Prevention Trials. AVID, CASH and CIDS Studies. Antiarrhythmics Vs Implantable Defibrillator Study. Cardiac Arrest Study Hamburg. Canadian Implantable Defibrillator Study. Eur Heart J 2000; 21(24):2071-8).
Poi si è cominciato a metterli anche in prevenzione primaria in pazienti ritenuti a rischio di morte improvvisa, come per esempio quelli con cardiopatia ischemica e FE < 30% , con un NNT circa 9 (Studio MADIT II. Moss AJ et al. Prophylactic implantation of a defibrillator in patients with myocardial infarction and reduced ejection fraction. N Engl J Med 2002; 346:877-83).
E' sempre difficile fare paragoni tra i pazienti di due studi diversi e quindi spiegare i risultati diversi ottenuti dagli studi DINAMIT e MADIT II. Sicuramente si può dire che mentre nel MADIT II la mortalità totale passava dal 19,8% del gruppo controllo al 14,2% del gruppo ICD, nel DINAMIT la mortalità totale era addirittura più elevata (anche se non statisticamente significativa) nel gruppo con ICD (18,6% vs 17%).
Ha sicuramente ragione l'editorialista che commentando lo studio DINAMIT sostiene che per ora l'ICD non può essere impiegato routinariamente in tutti gli infartuati con grave riduzione della FE e che è necessario individualizzare la scelta sulla base del rischio di morte aritmica e di decesso da altre cause.
Altri pazienti in cui viene proposto l'ICD sono quelli con condizioni eridatarie come la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro o la sindrome di Brugada, o ancora la cardiomiopatia ipertrofica e la sindrome del QT corto/lungo.
Una meta-analisi sui trials di prevenzione primaria e secondaria (Lee DS et al. Effectiveness of implantable defibrillators for preventing arrhythmic events and death: a meta-analysis. J Am Coll Cardiol. 2003 May 7;41:1573-82) conclude che nella prevenzione secondaria il beneficio sulla mortalità totale è evidente, nella prevenzione primaria sembra che il beneficio dipenda dalla selezione dei pazienti a rischio.
Una meta-analisi sulla utilità degli ICD nella cardiomiopatia non ischemica conclude nello stesso modo: i defibrillatori sono superiori alla terapia medica in pazienti selezionati (Desai AS et al. Implantable Defibrillators for the Prevention of Mortality in Patients With Nonischemic Cardiomyopathy . A Meta-analysis of Randomized Controlled Trials. JAMA 2004 Dec 15; 292:2874-2879 ).
Le meta-analisi non tengono conto del recente Sudden Cardiac Death in Heart Failure Trial (SCD-HeFT), non ancora pubblicato ma i cui risultati sono stati presentati a marzo 2004 all' American College of Cardiology's Annual Scientific Session .
Si tratta dello studio con casistica più numerosa avendo arruolato oltre 2500 pazienti con scompenso da qualsiasi causa e FE =< 35%. I pazienti arruolati sono stati randomizzati in tre gruppi: ICD, amiodarone o placebo, con follow-up medio di 2-6 anni. La mortalità totale, al 5° anno, era del 28,9% per l'ICD, del 34,1% per amiodarone e del 35,8% per il placebo (nessuna differenza tra amiodarone e placebo).

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L - Quanto sono efficaci i FANS nella gonartrosi?

I FANS nella gonartrosi possono ridurre il dolore nel breve periodo ma la loro efficacia è scarsa a lungo termine.

I FANS vengono usati nel trattamento sintomatico della gonartrosi. Quanto sono efficaci? Una meta-analisi si è proposta di rispondere alla domanda esaminando gli studi in cui i FANS (compresi i cosidetti coxib) sono stati paragonati al placebo. La ricerca ha permesso di ritrovare 23 studi per un totale di quasi 11.000 pazienti (età media 62 anni). Gli autori riferiscono che la qualità degli studi è accettabile anche se alcuni studi avevano scelto dei criteri di selezione dei pazienti perlomeno discutibili, non includendo coloro che si sapevano essere non responsivi ai FANS. Purtroppo solo uno studio riporta dati sulla efficacia analgesica dell'antinfiammatorio a lungo termine (da uno a quattro anni) e l'effetto è negativo: nessun beneficio rispetto al placebo. Negli studi in cui l'efficacia analgesica dei FANS è stata valutata nell'arco di 2-13 settimane, i FANS hanno dimostrato invece di ridurre l'intensità del dolore rispetto al placebo, anche se l'effetto era meno evidente negli RCT in cui erano stati arruolati anche pazienti che si sapeva essere poco sensibili ai FANS.
Tuttavia l'effetto antalgico non è molto pronunciato: valutato secondo una scala visuale la riduzione del dolore era mediamente del 15%, quindi clinicamente modesta.
Fonte: Bjordal JM et al. Non-steroidal anti-inflammatory drugs, including cyclo-oxygenase-2 inhibitors, in osteoarthritic knee pain: meta-analysis of randomised placebo controlled trials BMJ 2004 Dec 4; 329:1317

Commento
Nell'artrosi le linee guida consigliano il paracetamolo (a dosaggi adeguati di 3-4 grammi) come farmaco di prima scelta e in seconda istanza un antinfiammatorio non steroideo. Tuttavia recenti studi hanno avanzato dubbi sulla reale utilità del paracetamolo. Questa meta-analisi (che ha considerato anche i coxib) suggerisce che nella gonartrosi i FANS possono avere un ruolo nel diminuire il dolore nel breve periodo ma la loro efficacia a lungo termine non sembra superiore a quella del placebo. Di contro bisogna considerare gli effetti collaterali che, specialmente negli anziani, sono frequenti e gravi (dalla tossicità gastrica all'effetto negativo sulla funzione renale e cardiaca).
In effetti è esperienza comune che i pazienti, pur assumendo FANS per lunghi periodi, in realtà spesso richiedono un cambiamento della molecola nella speranza (di solito malriposta) di trovare una soluzione ai loro problemi. Anche altre terapie (dalla infiltrazione di sterodi o di acido jaluronico all'agopuntura alle varie metodiche fisioterapiche) ottengono risultati variabili, mentre nei casi gravi e intrattabili non rimane che ricorrere alla chirurgia protesica.

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M - Morte improvvisa

La morte improvvisa nei giovani adulti è spesso dovuta a patologie cardiache ma in un terzo dei casi il motivo rimane indeterminato

In uno studio retrospettivo di coorte effettuato su militari d'ambo i sessi statunitensi esaminando il registro dei decessi del Dipartimento della Difesa sono state controllate le cause di morte non dovute a eventi traumatici in soggetti di età compresa tra i 18 e i 35 anni.
La frequenza di morte non traumatica in questa fascia d'età è molto bassa (13 su 100.000/arruolati/anno). Nella maggior parte dei casi (86%) il decesso è associato all'esercizio fisico. La causa più comune (51% dei decessi) è una anomalia cardiaca, tuttavia in una percentuale elevata (36% dei casi) il motivo della morte rimane inspiegato.
Le anomalie cardiache più frequentemente riscontrate sono: alterazioni coronariche (61%), miocarditi (20%), cardiomiopatia ipertrofica (13%). Gli autori notano che i soggetti arruolati erano stati sottoposti ad uno screening pre-arruolamento comprendente una dettagliata anamnesi e un esame clinico, per cui nella popolazione generale i dati potrebbero essere diversi.
Fonte:
Eckart RE et al. Sudden Death in Young Adults: A 25-Year Review of Autopsies in Military Recruits -Ann Intern Med 2004 Dec 7; 141:829-834


Commento di Renato Rossi
La morte improvvisa nei giovani adulti è, per fortuna, evenienza rara, ma sicuramente traumatizzante. Comprenderne la cause potrebbe portare a una possibile prevenzione? Lo studio americano conferma il sospetto che la maggior parte delle morti improvvise nei giovani è in qualche modo legata alla attività fisica e che spesso vi è una sottostante, misconosciuta, patologia cardiaca, anche se la cause del decesso rimangono ignote in un caso su tre.
Non sappiamo se uno screening comprendente, oltre all'anamnesi e alla visita, accertamenti strumentali (ecocardiogramma, elettrocardiogramma dinamico/24 ore e da sforzo), sia non in grado di individuare i soggetti a
rischio e di ridurre una eventualità che resta rara, anche perchè non si saprebbe quali criteri di selezione adottare (soggetti che si debbono sottoporre a esercizio fisico? di quale livello?) essendo impensabile uno screening di questio tipo esteso a tutti. Ricordo che per la pratica della attività sportiva agonistica in Italia è prevista certificazione appositamente rilasciata da un medico specialista in Medicina dello Sport.

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N - Anche il naproxene può aumentare il rischio cardiovascolare

Dopo la tempesta che ha colpito la classe dei coxib sembra che anche il naproxene manifesti gli stessi problemi cardiovascolari. Si tratta di un effetto classe di tutti i FANS?

Un trial che valutava la capacità dei farmaci antinfiammatori non steroidei di ridurre il rischio di morbo di Azheimer (sponsorizzato dai National Institutes of Health americani) è stato interrotto anticipatamente. Nello studio, che doveva durare tre anni, erano stati arruolati circa 2500 pazienti randomizzati a placebo, naproxene o celecoxib. Lo studio è stato interrotto a causa delle notizie recenti sul celecoxib. Tuttavia l'analisi ad interim dei dati ha mostrato che era il naproxene ad essere associato ad un aumento del rischio di eventi cardiovascolari del 50% rispetto al placebo, mentre tale problema non risultava per il celecoxib.
La FDA ha avvertito i pazienti di non assumere per periodi superiori ai 10 giorni prodotti da banco contenenti naproxene senza aver preventivamente consultato un medico.Fonte: http://www.medscape.com/viewarticle/496403

Commento di Renato Rossi
Dopo il ritiro del rofecoxib e i recenti allarmi su celecoxib e valdecoxib sembra che anche un altro FANS, questa volta non cox-selettivo, mostri problemi di tossicità cardiovascolare. La cosa è abbastanza sorprendente se si pensa che il naproxene è in commercio da decenni ed è considerato un FANS sicuro dal punto di vista cardiovascolare. Quando nello studio VIGOR si evidenziò un aumento degli infarti nel gruppo trattato con rofecoxib rispetto al naproxene, si cercò di spiegare la cosa con un supposto effetto cardioprotettivo di quest'ultimo.
I risultati di quest'ultimo studio sono sorprendenti anche perchè non sembra ci siano stati problemi per l'altro farmaco testato, il celecoxib.
Gli studiosi paiono presi in contropiede e qualcuno si è chiesto se in realtà non sia tutta la classe dei FANS (selettivi e non selettivi) ad avere un effetto protrombotico. Dobbiamo ammettere che, nonostante molti di questi farmaci siano usati da decenni, ancora non ne conosciamo il profilo di sicurezza cardiovascolare?

Commento Di Luca Puccetti
I risultati contraddittori di vari trials destano sconcerto. Già in un precedente commento avevamo evidenziato che in realtà analizzando medline nonsono emersi, prima dei coxib, studi di lunga durata sui FANS. Questo è dovuto al fatto che quando i FANS sono stati registrati i trials regsitrativi avevano altre modalità di conduzione e si richiedevano prove di tollerabilità solo nel breve-medio termine. Una volta registrati i FANS non erano più oggetto di interesse da parte dei produttori e gli studi erano in massima parte tesi ad evidenziare vantaggi competitivi marginali. In Italia, fatto salvo per i casi artrite e per le gravissime coxartrosi o gonartrosi è molto raro trattare per un tempo prolungato i pazienti per sintomi osteoarticolari. Questa abitudine è invece molto più diffusa nei paesi anglosassoni dove spesso si usano dosi molto superiori a quelle mediamente impiegate in Italia. I nuovi coxib hanno scoperchiato la pentola. Per la loro supposta tollerabilità si è pensato che questi farmaci avrebbero potuto essere somministrati per terapie protratte. Sono stati dunque realizzati trials di lunga durata anche su modelli diversi da quelli dei pazienti artritici ed artrosici. Non è un caso infatti che la maggior parte degli allarmi provenga da studi sulla prevenzione della degenerazione della poliposi intestinale o dell'Alzheimer che hanno durate molto protratte. I risultati di questo studio sembrerebbero scompaginare anche l'ipotesi dello sbilanciamento protrombogeno svolto dai coxib per l'azione inibitoria sulla prostaciclina senza al contempo inibire il trombossano. Si era sostenuto che i FANS, per la loro non selettività sugli isoenzimi COX, agissero su tutte e due le catene metaboliche dando luogo ad una sorta di risultante nulla. Adesso questa teoria sembra messa in discussione dai risultati di questo studio in cui è il celecoxib che pare non dare problemi. A questi risultati si contrappongono quelli dello studio sulla prevenzione del cancro del colon nella adenomatosi che invece mostrano un aumento del rischio di eventi cardiovascolari proprio nei pazienti trattati con celecoxib rispetto al gruppo placebo. Tutto ciò mi suggerisce una notazione di metodo. Forse sarà bene che tutti noi ci ricordiamo sempre l'insegnamento di Geoffrey Rose: i risultati degli studi epidemiologici emergono tra gruppi di malati e si applicano solo al livello di gruppo di quei malati (e non di altri). Insomma è forte la solita tentazione di voler inquadrare i malati reali in qualcuno di questi gruppi con la speranza, da parte del buon medico, di trarne i risultati migliori in termini di efficacia e tollerabilità a vantaggio del proprio paziente che somiglia tanto a qualcuno di quei gruppi..... , ma di quale studio?

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O La nortriptilina può aiutare a smettere di fumare.

Un vecchio antidepressivo, la nortriptilina, può aiutare i pazienti che desiderano smettere di fumare.
Lo dimostra uno studio randomizzato e controllato su 160 fumatori (> 10 sigarette al giorno). I pazienti vennero suddivisi in quattro gruppi. Ad ogni gruppo veniva prescritta nicotina transdermica per 8 settimane; inoltre tutti i pazienti furono sottoposti a un ciclo di 5 sessioni di counseling di gruppo. Nello stesso tempo i gruppi ricevettero nortriptilina oppure placebo per 12 settimane. Successivamente i soggetti che erano stati randomizzati ad avere un trattamento prolungato continuarono la nortiptilina e il counseling per altre 40 settimane. Alla fine delle 52 settimane la percentuale di pazienti in astinenza era di: 30% per il gruppo placebo con trattamento breve, 42% per il gruppo placebo in trattamento prolungato, 18% per il gruppo nortriptilina in trattamento breve e 50% per il gruppo nortriptilina in trattamento prolungato. I pazienti persi al controllo sono stati considerati come pazienti ancora fumatori.
Gli effetti avversi riportati con il farmaco, inclusi disturbi della sfera sessuale, si sono verificati, soprattutto nel primo periodo di assunzione, nel 20% dei pazienti in trattamento attivo.
Fonte: Sharon M. Hall SM et al. Extended Nortriptyline and Psychological
Treatment for Cigarette Smoking - Am J Psychiatry 2004 Nov; 161: 2100-2107

Commento
E' ormai nozione comune che il fumo costituisce uno dei principali fattori di rischio per le malattie cardiovascolari e che smettere di fumare è molto difficile, anche per pazienti motivati. Gli interventi finora proposti si sprecano (dal counseling alla psicoterapia all'agopuntura) e anche il trattamento farmacologico (nicotina, bupropione) ottiene risultati incoraggianti nel breve periodo ma a distanza di un anno la percentuale di soggetti che non fuma si aggira sul 35% circa.
Se i risultati di questo studio, che confermano quelli di uno studio precedente (Prochazka AV et al. A Randomized Trial of Nortriptyline Combined With Transdermal Nicotine for Smoking Cessation. Arch Intern Med. 2004 Nov 8; 164:2229-2233) saranno convalidati da studi più ampi la nortriptilina, un vecchio antidepressivo triciclico molto economico, potrebbe diventare una terapia accessibile a molti. Vi è da notare comunque che nel gruppo che ha ottenuto i migliori risultati la nortriptilina è stata associata alla nicotina transdermica per le prime 8 settimane e al counseling di gruppo per tutta la durata dello studio. Probabilmente una percentuale di astensione del 50% non sarebbe stata possibile senza il supporto psicologico del counseling, che rimane la strategia più difficile e complessa da mettere in pratica.
E' da notare anche il buon risultato ottenuto dal placebo somministrato per un anno, il che indica che i fattori psicologici rivestono la maggior importanza nell'ottenere la cessazione del fumo.

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P - Peptide natriuretico  e rischio di eventi cardiovascolari e di morte

I peptici natriuretici sono ormoni controregolatori , coinvolti nell’omeostasi del volume e nel rimodellamento cardiovascolare.Gli Autori hanno condotto uno studio prospettico allo scopo di determinare la relazione tra i livelli plasmatici di un peptide natriuretico di tipo B ( BNP ) e di un peptide natriuretico pro-atriale N-terminale ( NT-proANP ) , e rischio di morte per cause generali , eventi cardiovascolari maggiori, insufficienza cardiaca , fibrillazione atriale, ictus o attacco ischemico transitorio ( TIA ) e malattia coronarica.Hanno partecipato allo studio 3346 persone senza insufficienza cardiaca.Il periodo medio di osservazione è stato di 5.2 anni.
Nel corso del follow-up ci sono stati 119 decessi e 79 soggetti sono andati incontro ad un primo evento cardiovascolare.Dopo adattamento per i fattori di rischio cardiovascolare, ogni incremento di 1 deviazione standard in log dei livelli del peptide natriuretico di tipo B è risultato associato ad un aumento del 27% del rischio di morte ( p=0.009 ) , del 28% del rischio di un primo evento cardiovascolare ( p=0.03 ) , del 77% del rischio di insufficienza cardiaca ( p<0.001 ), del 66% del rischio di fibrillazione atriale ( p<0.001 ), e del 53% del rischio di ictus o TIA ( p=0.002 ).
I livelli del peptide non presentavano una significativa relazione con gli eventi coronarici.
I valori di peptide natriuretico di tipo B sopra l’80° percentile sono stati associati con un hazard ratio ( HR ) di 1.62 per la mortalità (p=0.02), di 1.76 per il primo evento cardiovascolare maggiore (p=0.03) , di 1.91 per la fibrillazione striale ( p=0,02 ), di 1.99 per l’ictus o TIA ( p=0.02 ) , e di 3.07 per l’insufficienza cardiaca ( p=0.002 ).
Risultati simili sono stati ottenuti per il peptide natriuretico pro-atriale N-terminale.
In questo studio, i livelli plasmatici di peptide natriuretico sono stati in grado di predire il rischio di morte e di eventi cardiovascolari.

N Engl J Med 2004; 350:655-663

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Q - Il piercing è associato a comportamenti a rischio negli adolescenti americani

Sottoporsi al piercing è una pratica molto frequente oggi nei giovani e negli adolescenti.
Complicanze legate al piercing vengono riportate in circa un caso ogni sei.
Le più comuni sono le infezioni batteriche, il sanguinamento e i traumatismi locali cutanei o mucosi.Uno studio si è proposto di esaminare se gli adolescenti (età 13-18 anni) che si sottopongono a questa pratica manifestino problemi del comportamento in misura maggiore rispetto ai coetanei che non portano il piercing.
Analizzando le risposte date ad un questionario da oltre 4.300 adolescenti, gli autori dello studio riferiscono una frequenza del piercing (in sedi diverse dal padiglione auricolare) del 4% in generale (7,1% nelle ragazze e 1,5% nei ragazzi). Sembra non ci siano differenze per quanto riguarda l'etnia, la zona di residenza e i fattori familiari.
Vi è invece una associazione forte tra il piercing e i comportamenti o le abitudini ritenute a rischio. Per esempio i rapporti sessuali precoci sono più frequenti tra gli adolescenti col piercing rispetto ai controlli (due su tre contro uno su tre circa), il fumo (sei su dieci contro tre su dieci), l'uso di marijuana, l'abbandono della famiglia, le assenze ingiustificate da scuola, le idee suicidiarie (26% vs 13%) e i tentativi di suicidio.
Fonte: TA Roberts et al. Body piercing and high-risk behaviour in adolescents. Journal of Adolescent Health 2004 34: 224-229.

Commento
Sembra che il piercing negli adolescenti sia un marker di comportamenti rischiosi e può essere un utile indizio nelle mani del medico per indagare con maggior scrupolo determinati comportamenti come il fumo, l'uso di droghe, i rapporti sessuali non protetti o le idee suicidiarie. Si sa come gli adolescenti siano pazienti da gestire con delicatezza e competenza, che stanno attraversando una fase cruciale dello sviluppo, sempre pronti a chiudersi a riccio se interrogati su particolari come questi.
Lo studio è quindi interessante tuttavia rimane da determinare se questi dati siano validi anche per la realtà italiana.

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Q1- Raloxifene riduce il rischio di cancro mammario invasivo

Nello studio MORE (Multiple Outcomes of Raloxifene Evaluation) il raloxifene, somministrato per 4 anni a donne in menopausa affette da osteoporosi, ha dimostrato di ridurre il rischio fratturativo vertebrale, ma non femorale (Ettinger B et al. JAMA 1999 Aug 8; 282:637-645). Inoltre un'analisi dello studio suggerisce che il farmaco possa avere, a fronte di un aumento del rischio trombotico, un effetto protettivo sullo sviluppo del cancro mammario (Cummings SR et al. JAMA 1999 Jun 16; 281:2189-2197).
Oltre 5.000 donne che avevano partecipato allo studio MORE hanno continuato l'assunzione di raloxifene o placebo per altri 4 anni (studio CORE = Continuing Outcomes Relevant to Evista). Mentre nel MORE la dose di raloxifene era di 60 oppure di 120 mg/die, nel CORE la dose è stata di 60 mg.
Alla fine dei 4 anni di follow-up il gruppo di donne che assumeva raloxifene mostrava una riduzione del 59% di tumori mammari invasivi. La riduzione era evidente per i tumori positivi per i recettori estrogenici (riduzione del 66%) ma non per quelli negativi per tali recettori.
Considerando insieme gli 8 anni di trattamento (MORE + CORE) la riduzione del rischio è stata del 66% considerando i tumori totali e del 76% consideramdo solo quelli positivi per i recettori degli estrogeni.
Fonte: Martino S et al. J Natl Cancer Inst 2004 Dec 1;96:1751-1761.

Commento
Stando ai risultati dei due studi si può dire che il raloxifene è una buona scelta nelle donne con osteoporosi post-menopausale che si ritiene essere a rischio aumentato di sviluppare un cancro della mammella (per esempio per forte familiarità). Bisogna però bilanciare gli effetti benefici della terapia (riduzione delle fratture vertebrali e del rischio neoplastico mammario) con gli eventi avversi: considerando gli 8 anni di trattamento il rischio di tromboembolismo è praticamente raddoppiato nelle donne in trattamento attivo rispetto ai controlli. Il raloxifene va quindi evitato nelle pazienti con pregresso oppure a rischio di evento tromboembolico. Solo studi futuri potranno inoltre stabilire se il farmaco potrà avere un ruolo nella prevenzione primaria del cancro mammario. Nel 2006 dovrebbero essere disponibili i risultati dello studio STAR in cui vengono paragonati tamoxifene e raloxifene nella prevenzione di questa neoplasia.

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Q2 - Deludenti i test fecali per la diagnosi del cancro del colon

Anche la ricerca del DNA mutato sulle feci di soggetti di media età, pur migliorando la scarsa sensibilità del tradizionale test della ricerca del sangue occulto, tuttavia rimane molto lontano dalla sensibilità della colonscopia.

Su 2507 soggetti a medio rischio di carconoma del colon (età maggiore di 50 anni) il test del DNA ha svelato 16 dei 31 cancri invasivi, mentre l' Hemoccult II ne ha identificato soltanto 4 su 31 (51.6 percento vs. 12.9 percento, P=0.003). Il test sul DNA ha svelato 29 delle 71 lesioni rappresentate dai cancri invasivi e gli adenomi altamente displastici, mentre l' Hemoccult II solo 10 su 71 (40.8 percento vs. 14.1 percento, P<0.001). Tra i 418 pazienti con neoplasia avanzata (definita come: a) adenoma tubulare di almeno 1 cm di diametro, b) polipo villoso, c) polipo con displasia severa, d) cancro), il test sul DNA è risultato positivo in 76 casi (18.2 percento), mentre l' Hemoccult II in 45 casi (10.8 percento). La specificità nei soggetti con reperti negativi alla colonscopia è stata del 94.4 percento per il test sul DNA e del 95.2 percento per l'Hemoccult II.
Fonte: NEJM 2004; 351:2704-2714
Link:
http://content.nejm.org/cgi/content/short/351/26/2704

Commento di Renato Rossi
Numerosi studi hanno dimostrato che lo screening del cancro del colon tramite la ricerca del sangue occulto fecale è in grado di ridurre la mortalità specifica. Tuttavia rimangono numerosi dubbi perchè non si è mai riusciti ad ottenere una riduzione della mortalità totale. Questo studio dimostra che la ricerca delle mutazioni nel DNA fecale identifica un maggior numero di neoplasie rispetto al sangue occulto. Tuttavia non vi sono studi che abbiano valutato se questa nuova metodica sia in grado di ridurre la mortalità. Sembra quindi ancora prematuro parlare di test di screening con DNA fecale da impiegare su vasta scala. Inoltre il test non identifica molte neoplasie scoperte invece con l'esame endoscopico. Anche per la colonscopia, sebbene molte società scientifiche la raccomandino come test di screening, non esistono per il momento evidenze derivanti da RCT. Sono in corso studi al riguardo, i cui risultati saranno però disponibili solo fra alcuni anni.

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Q3  Ostracismo a TOS: i ginecologi italiani non ci stanno

I ginecologi italiani assolvono la terapia ormonale sostitutiva (TOS), come somministrata in Italia, contro i sintomi della menopausa.

Il professor Antonio Chiantera, segretario nazionale dell'Aogoi, l'Associazione ostetrici ginecologi ospedalieri italiani ha dichiarato che dagli Usa arriverebbe un allarmismo infondato, ''un'epidemia di paura'' che va assolutamente ridimensionata. Il rischio di cancro del seno aumenterebbe appena dello 0,08% contro un aumento del 63% dovuto all'obesità. Secondo il Prof. Chiantera i dati USA non possono essere considerati rappresentativi delle donne a cui, solitamente, viene prescritta la TOS in Italia. Le donne sarebbero ingiustamente private di un valido aiuto. Occorerebbe reagire a tale situazione e garantire alle donne in menopausa un futuro, a detta del Prof. Chiantera, migliore ed una qualità di vita che le donne in passato non hanno potuto avere, sperimentando gli effetti devastanti della depressione in menopausa.Tali asserzioni sarebberobasate sulle conclusioni del Progetto menopausa Italia (Pmi), uno studio durato sette anni e condotto su 150 mila donne. I risultati della ricerca, pubblicati nel volume ''Menopausa e terza eta': up to date'', autofinanziato dall'Aogoi, evidenzirebbero le differenze tra le donne italiane che si rivolgono ai centri menopausa e quelle arruolate in particolare nel trial Usa Whi (Women health initiative) del 2002.
Dal Pmi, che ha elaborato oltre 200 mila dati provenienti da 440 strutture collegate in rete - ha riferito Costante Donati Sarti, responsabile del progetto e coautore del libro con Sonia Baldi - emerge nel dettaglio che ''l'eta' media delle italiane arruolate e' di 53,5 anni, contro i 63,3 anni in media delle americane reclutate nel Whi; le pazienti obese sono il 13,4% del campione, contro il 34%; le diabetiche il 2%, contro il 4,4%; le ipertese il 21,7%, contro il 35,7%; le cardiopatiche con un'esperienza di problemi coronarici l'1,3%, contro il 5,5%; quelle in cura con farmaci ipolipemizzanti lo 0,7%, contro il 12,5%, e quelle trattate con antiaggreganti piastrinici (la cosiddetta 'aspirinetta') il 2%, contro il 19%''.
In Italia la terapia ormonale sostitutiva sarebbe sempre stata utilizzata in modo mirato. Nei centri specializzati sarebbe prescritta al 40-42% delle pazienti (contro percentuali anglo-americane che arrivano a superare l'80%): solo in donne sane tra i 50 e i 54 anni, se e quando serve (cioe' esclusivamente in presenza di determinati sintomi o per prevenire l'osteoporosi) e per cicli di tre-quattro anni''. Insomma, ''vogliamo fare giustizia'', ha affermato il professor Carlo Sbiroli, presidente dell'Aogoi. Da qui l'idea del volume, che sara' distribuito agli specialisti e nelle librerie, e il cui contenuto sara' condensato in una dispensa dedicata ai medici di famiglia. Ma il Pmi prevede anche la stesura di linee guida 'ad hoc' e l'organizzazione di corsi di aggiornamento per ginecologi.
I dati Usa sui rischi della terapia ormonale sostitutiva, come pure quelli inglesi del trial Mws (Million women study), hanno provocato ''un'epidemia di paura, ma anche di sfiducia'', ha aggiunto la professoressa Alessandra Graziottin, responsabile del Gruppo di studio sulla sessuologia all'interno del Pmi. Eppure, ha fatto notare l'esperta, sia dal Whi sia dal Mws arrivano anche dati rassicuranti: ''Se dal primo studio emerge infatti che le donne italiane trattate con ormoni sostitutivi sono piu' giovani e piu' sane delle pazienti americane, seguono la cura per meno anni e solo in presenza di sintomi menopausali marcati - ha commentato - dal secondo arrivano altre buone notizie: ne' la terapia ormonale pregressa ne' la pillola contraccettiva ne' gli estrogeni da somministrare per via vaginale fanno aumentare il rischio di cancro del seno''.
In conclusione, ''le donne italiane possono stare tranquille - avrebbe affermato la Graziottin - Lo dimostrerebbe il fatto che 'chi lo sa lo fa', ovvero che l'uso degli ormoni in menopausa e' elevato soprattutto tra chi sa leggere e interpretare gli studi clinici: il 56,5% delle ginecologhe italiane in menopausa usa ormoni (una percentuale sette volte superiore a quella generale, pari all'8,4%), come pure il 59% delle mogli dei ginecologi italiani''.
Fonte: Opa/Adnkronos Salute

Commento di Luca Puccetti
Francamente c'è da rimanere sorpresi da queste posizioni. Sarebbe come dire che se si prendesse un prodotto anche potenzialmente nocivo e si evitasse di darlo agli anziani e ai soggetti cardiopatici, diabetici, dislipidemici non succederebbe nulla mentre al contrario se venisse sommnistrato ai malati o agli anziani ci potrebbero essere problemi. Non mi pare fosse necessario fare uno sforzo così titanico come sembrebbe il PMI per scoprire cose che qualsiasi agenzia di monitoraggio vendite farmaceutiche avrebbe potuto agevolmente documentare. Era arcinoto a tutti che in Italia la percentuale di donne in TOS erano mediamente più giovani delle nordamericane e che dunque ipso facto erano meno inclini ad essere diabetiche, cardiopatiche e dislipidemiche. Era parimenti noto che la durata media di una TOS in Italia era di 9 mesi contro durate assai più lunghe negli USA. E meno male!
A parte queste facili considerazioni, mi sembra più opportuno cercare di portare un contributo per cercare di interpretrare i risultati dei vari studi. La mia opinione è la seguente. Nelle donne più giovani, non diabetiche, non dislipidemiche, lo stato endoteliale al momento della menopausa è probabilmente piuttosto ben conservato e pertanto la sommninitrazione della TOS non sbilancia sensibilmente la bilancia in senso procoagulativo perchè mancano i focolai trombogeni. Laddove a causa di età, dislipedemie, diabete l'endotelio è già compromesso e vi sono numerose placche, magari fissurate o instabili, la somministrazione di TOS provoca un aumento sensibile del rischio trombogeno con aumento relativo di eventi. Pertanto mi pare che gli orientamenti attuali siano adeguati alle informazioni che sono ad oggi note. LA TOS dovrebbe essere prescritta, informando adeguatamente la paziente, come sempre del resto, sui possibili rischi sul piano individuale che le evidenze dei trials hanno indicato e solo per brevi periodi, limitatamente al controllo dei sintomi quando essi siano di tale gravità da inficiare significativamente la qualità della vita e comunque la paziente non possa o voglia sopportare. A parte la prevenzione della TOS e del cancro del colon, la TOS ha fallito nel dimostrare tutti i vantaggi che gli studi osservazionali degli anni 90 lasciavano supporre. Poichè esistono presidi alternativi di provata efficacia sulla prevenzione dell'osteoporosi e poichè solo poche donne presentano sintomi da deprivazione ormonale tanto severi la TOS appare una terapia da riservare a casi particolari, limitattamente al controllo della fase acuta dei sintomi climaterici ed in donne senza fattori di rischio cardiovascolare.

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Q4 Tegaserod efficace in stipsi da colon irritabile

Il Tegaserod è risultato efficace e ben tollerato nella stipsi da colon irritabile.

Uno studio randomizzato, multicentrico, controllato con placebo, ha considerato 1348 adulti (90% donne) con stipsi cronica per valutare l'efficacia del tegaserod (un agonista serotoninergico) nella sindrome del colon irritabile. I soggetti sono stati randomizzati e trattati con 2 mg (n = 450)o 6 mg (n = 451) di tegaserod due volte al giorno, oppure placebo (n = 447), per 12 settimane.
Un’evacuazione settimanale spontanea e completa oltre quelle abituali è stata osservata nel 43% dei pazienti trattati con 6 mg, nel 41% di quelli trattati con con 2 mg e nel 25% nel gruppo placebo (p<0,001 rispetto al placebo con entrambe le dosi di tegaserod ). L’effetto si è protratto per le 12 settimane del trattamento. L’utilizzo di lassativi è diminuito in tutti e tre i gruppi, con nessuna differenza significativa tra farmaco e placebo. I pazienti trattati, rispetto a quelli del gruppo controllo, hanno inoltre manifestato un significativo miglioramento di gonfiore, dolore e tensione addominale; non è stato osservato nessun effetto rebound nelle 4 settimane successive al termine del trattamento ed il farmaco è stato, nel complesso, ben tollerato.
Fonte: Clin Gastroenterol Hepatol. 2004; 2:796-805
Commento
Questo studio mette in evidenza, contrariamente a precedenti risultati una buona tollerabilità del tegaserod. Nell'ampio studio multicentrico, randomizzato, a doppio cieco, controllato da placebo Zensaa al quale hanno partecipato 2.660 pazienti donne affette dalla sindrome dell’intestino irritabile con costipazione, nei pazienti che assumevano tegaserod (3,8%) rispetto a coloro che assumevano placebo (0,6%) è stata osservata un incremento dell'incidenza di diarrea che si è dimostrata solo in rari casi transitoria (0,9%). Anche in questo studio si conferma l'importanza dell'effetto placebo nei protocolli sulla stipsi, come dimostrato dalla mancata riduzione del ricorso ai lassativi.
Luca Puccetti

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QQ1 L’ipertensione danneggia le funzioni cognitive, la terapia le preserva.

Come e’ gia noto, vi e’ una correlazione diretta fra la pressione del sangue e il rischio, nei soggetti anziani, dell’insorgere della demenza vascolare. L' ipertensione,  sia agendo sul sistema vascolare del cervello che direttamente sul cervello stesso, aumenta in maniera statisticamente rilevante la possibilita’ che le funzioni cognitive decadano. 
Studi clinici e osservazioni hanno mostrato che una azione medica  attiva sulle persone ipertese, mirata alla diminuzione della pressione diminuisce sia tasso di morbosità che la mortalita'; e' stato inoltre osservato che la diminuzione della pressione arteriosa migliora sensibilmente la qualita’ della vita e preserva le funzioni cognitive. 
Non sempre la terapia basata su un solo farmaco è sufficiente per garantire una azione efficace nei confronti dell’ipertensione; molti pazienti necessitano, difatti, di una terapia combinata composta da più farmaci. Le terapie combinate (tipicamente un diuretico insieme ad un inibitore ACE, un ARB o un beta bloccante) sono appropriate maggiormente nel caso di pazienti anziani; risultano infatti ben tollerate, e sono in grado di contribuire notevolmente alla conservazione delle funzioni cognitive.
Guido Zamperini
Fonte : Papademetriou V. - Geriatrics. 2005 Jan;60(1):20-2, 24.         

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QQ2 La genetica dell’autismo

Il disturbo autistico della personalita’ (299.00 dell ICD9 CM) e’ uno dei piu’ particolari disturbi dell’infanzia, in quanto interessa la maggior parte delle funzioni cognitive del bambino. Non a caso, infatti, al disturbo autistico viene di solito abbinato un lieve ritardo mentale (35-50 QI), e circa il 75% dei bambini autistici funzionano ad un livello ritardato. Il profilo delle capacita’ cognitive e’, solitamente, irregolare, indipendentemente dal QI generale. Puo’ capitare, infatti, che alcune capacita’ specifiche siano maggiormente sviluppate rispetto alla media.
La ricerca riguardante il disturbo autistico e’, come si puo’ quindi immaginare, particolarmente attenta all’insorgenza della malattia stessa, e piu’ specificatamente nella ricerca del gene che ne causerebbe l’insorgenza. In questi ultimi 10 anni di ricerche si e’ scoperto che l’insorgenza della sindrome non e’ dovuta ad un singolo gene, ma piuttosto ad una sinergia di 10-20 geni differenti. Studi condotti su gemelli e sui familiari dei soggetti autistici  hanno dimostrato che la parentela genetica aumenta sensibilmente l’insorgenza di sintomi autistici o simili. Inoltre, molte sindromi genetiche o anomalie cromosomiche sono spesso associate con l’insorgenza dell’autismo. E’ quindi ipotizzabile che un complesso sistema di interazioni a livello genetico alla base del disturbo. 

Guido Zamperini

Fonte: Semin Pediatr Neurol. 2004 Sep;11(3):196-204.

 
PUBMED PMID: 15575414

DSM-IV

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QQ3 I disturbi dell' alimentazione: meglio i farmaci o la psicoterapia?

 La terapia comportamentale, insieme ad alcuni farmaci, hanno mostrato in precedenti studi una effettiva utilita’ contro la bulimia, ma nessun studio ha comparato scientificamente il trattamento medico e quello comportamentale. 
C.M.Grilo, del dipartimento di psichiatria della Yale University (New Haven, Connecticut), in collaborazione con R.M. Masheba e G.T.Wilson, del Dipartimento di Psicologia della State University of  New Jersey (Piscataway, New Jersey), hanno condotto uno studio randomizzato in confronto con placebo al fine di verificare le eventuali differenze fra la terapia comportamentale e la terapia farmacologica con fluoxetina. 

Lo studio è stato condotto su 108 pazienti, randomizzati in 4 gruppi, che venivano poi trattati diversamente: ad un gruppo e’ stata somministrata fluoxetina, 60mg/die); ad un secondo gruppo e’ stato somministrato placebo; ad un terzo gruppo e’ stata somministrata terapia comportamentale e fluoxetina (60 mg/die); al quarto gruppo e’ stata somministrata la terapia comportamentale insieme al placebo. Le cure sono state condotte in doppio cieco.
Dei 108 pazienti l’80 % (86) hanno completato la cura. La percentuale di remissione al termine del trattamento (per chi lo ha condotto a termine), intesa come l’assenza di episodi bulimici per 28 giorni, è stata del 29% per il gruppo trattato con la fluoxetina, il 30% per quello trattato con il placebo, il 55% per il gruppo con psicoterapia piu’ fluoxetina e il 61% per il gruppo trattato con terapia piu’ placebo.
La fluoxetina non risulta maggiormente efficace del placebo, ne' in un confronto diretto ne' insieme  alla psicoterapia comportamentale, mentre per entrambi i gruppi in trattamento comportamentale si osserva una ,aggior percentuale  di remissione, statisticamente significativa. 
La terapia comportamentale si è rivelata quindi superiore rispetto alla terapia medica per la cura dei disordini alimentari di tipo bulimico. 

Guido Zamperini 

Biol Psychiatry. 2005 Feb 1;57(3):301-9. - PUBMED PMID: 15691532

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R - News prescrittive di Marco Venuti (dalla Gazzetta Ufficiale)
 Lamisil, Daskil, Terbitef - Modifica dello schema posologico ed estensione all'uso nei bambini a partire dai 12 anni di età (confezioni crema)
Fristamin, Clarityn e Alorin 
- Modificate le indicazioni terapeutiche; le nuove indicazioni sono:
trattamento sintomatico della rinite allergica (AR) e dell'orticaria cronica idiopatica (CIU).
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APPROFONDIMENTI

AA1Buon sangue non mente (Generalita' sulle applicazioni della genetica in campo forense)

L’analisi del DNA è una tecnica che viene sempre più usata in campo giuridico. Questo perché la tecnica si presta a molteplici applicazioni: dal riconoscimento dei corpi (si pensi le fosse comuni ritrovate nelle zone calde della Terra, ai desaparecidos argentini, ai morti delle Torri Gemelle) alla determinazione della discendenza nelle cause civili per le eredità.
Sempre più spesso, perciò, si sente parlare della genetica applicata nel campo delle indagini forensi. L’applicazione della genetica nelle indagini poliziesche ha permesso di aprire campi di indagine prima sconosciuti: una piccola traccia biologica, come un capello o una goccia di sangue, non si limita più a fornire una descrizione di massima sul soggetto a cui appartiene, ma parla del suo proprietario in maniera molto più dettagliata.
In una scena del delitto si analizzano i reperti, le tracce, i segni, per cercare di capire quale possa esserne stata la dinamica. La dinamica ha infatti la funzione primaria di consentire agli investigatori di comprendere pienamente l' accaduto, quali siano stati gli attori e come si siano mossi.
Un problema non secondario è quello della separazione delle eventuali tracce biologiche in base al proprietario delle stesse. Poter affermare che una eventuale macchia di sangue appartenga all’assassino, e non alla vittima o ad un eventuale soccorritore, e' il presupposto che consente agli investigatori di poter indagare con celerità e precisione.
Il concetto alla base di questa prima analisi è quello della verifica della compatibilità genetica. Sappiamo che gli esseri viventi sono codificati da una specifica sequenza genica, con l’esclusione dei gemelli monozigoti (che hanno lo stesso identico DNA, e che perciò sono indistinguibili in questo senso).
Questa unicità delle sequenze geniche ci permette, mediante un raffronto, di identificare il proprietario dei "reperti biologici" che vengono trovati nella scena del crimine. Vengono confrontati una serie di loci genetici particolari, detti "marcatori" con criteri simili a quelli che si usano nel confronto delle impronte digitali. Se il campione-prova e il campione di raffronto sono compatibili per 13-16 marcatori, si considera positivo il confronto. Questo perché la probabilità che con 13-16 marcatori positivi il campione-prova possa appartenere ad un'altra persona è bassissimo, al punto di essere pressoche' nullo.
Lo stesso discorso vale per il caso contrario: se i marcatori indicano un profilo genico differente, la probabilità che appartenga alla persona con cui è stato fatto il raffronto è infinitesimale, errori umani esclusi.
Gli errori umani possono consistere in errori tecnici nell' effettuazione delle analisi, ma anche (come si e' verificato recentemente in un clamoroso caso giudiziario che ha coinvolto le polizie di Italia e del Regno Unito) in errori di trascrizione o di copiatura.
Ma come si può fare un confronto fra l' elemento di prova trovata e il campione di riferimento? Tutto è semplice quando è possibile ottenere il DNA da tutti gli attori del fatto. Si complica, invece, quando gli attori sono scomparsi, o comunque non sono raggiungibili, come nel caso di un assassino sconosciuto che fugge dopo il delitto. Come fare, allora?
Una soluzione (molto gradita alle polizie di tutto il mondo) sono i database. I database sono enormi archivi che contengono il DNA codificato e pronto per i confronti di determinate classi di popolazione.
Ad esempio i poliziotti, soprattutto negli Stati Uniti, hanno il proprio DNA registrato presso i database forensi. Questo per poter discernere facilmente le prove biologiche realmente facenti parte della scena del delitto da quelle che possono essere state lasciate, per caso, dagli inquirenti.
Altre classi di popolazioni registrate sono, ad esempio, i pregiudicati; i militari di carriera, di solito, registrano il proprio profilo genico, per poter consentire un’identificazione nel caso cadessero in battaglia.
Uno dei problemi di questi database è la codifica del DNA. Nella maggior parte dei paesi si cerca di usare un protocollo unico per il raffronto, al fine di poter far coincidere i marcatori usati per l’analisi della prova con quelli usati per la registrazione del profilo del DNA. Questo non sempre accade, in quanto le polizie dei diversi Paesi si basano su protocolli diversi anche se, fortunatamente, di solito parzialmente coincidenti.  
Lavorando al di fuori dei database (che contengono la codifica completa del DNA), bisogna procedere per indizi, basandosi anche sulla relazione genotipo-fenotipo. Alcune sindromi genetiche (Marfan, Pradel-Willi, Sotos) si manifestano infatti nelle caratteristiche del fenotipo (peso, altezza, ecc. ecc.), e possono essere utilizzate per restringere il campo di ricerca del genotipo corrispondente. Si moltiplicano inoltre gli studi che cercano di stabilire un rapporto univoco fra determinate sequenze e determinate "forme" fenotipiche. Questi studi sono ancora lontani dell’essere completi, ma quando lo saranno, sarà possibile determinare l’aspetto delle persone dal loro DNA.
Il sesso di una persona è facilmente identificabile dal suo DNA. Con questo test, in linea teorica, sarebbe possibile escludere dalla ricerca del colpevole il 50% delle persone (assumendo che questa sia la proporzione uomo-donna sulla terra). In realtà la capacità discriminativa di questo test, in criminologia, è molto inferiore, in quanto statisticamente il 90% dei crimini è perpetrato da uomini. Qualunque marcatore per il cromosoma Y può essere utilizzato per identificare il sesso (in quanto il cromosoma Y è, salvo particolari sindromi, tipico del sesso maschile).
Per quanto riguarda il gruppo sanguigno (che molti considerano ormai, da questo punto di vista, "superato"), sebbene non sia un tratto esteriormente decifrabile, resta importante nelle ricerche in genetica forense per le ampie conoscenze in materia. Infatti la registrazione del gruppo sanguigno viene effettuata allorche' ci si rivolga ad un ospedale, clinica, pronto soccorso o dentista, e viene registrata nella cartella clinica.
Il DNA mitocondriale e' un settore di ricerca relativamente recente, con importanti peculiarita'. Esso segue esclusivamente la discendenza femminile, praticamente intatto. È possibile quindi, mediante la sua analisi, verificare la parentela in senso matrilineare risalendo anche a parecchie generazioni prima. In questo senso riveste un ruolo paragonabile, nel DNA nucleare, a quello del cromosoma Y, che permette di identificare e seguire la linea patriarcale.
Guido Zamperini
Fonte:
Biologi Italiani n. 10, nov. 2004 pagg. 31-37

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MEDICINA LEGALE E NORMATIVA SANITARIA
Rubrica gestita da D.Z. per ASMLUC: Associazione Specialisti in Medicina Legale Università Cattolica

ML1Cassazione: medici responsabili anche per "colpa lieve" 

La Corte di Cassazione amplia la responsabilità dei medici chiamati a rispondere anche per colpa lieve qualora "per omissione di diligenza o imprudenza provochino un danno nell'esecuzione di un intervento". 
Questi principi, in realta' non sono nuovi, apparetenendo al retaggio della Medicina Legale tradizionale, ma e' stato sottolineata la possibilita' di responsabilita' anche nel caso di "colpa lieve", un tempo ritenuta esente da problemi sanzionatori.
Cio' che spesso viene dimenticato e' che il principio dell' esenzione della colpa lieve trova applicazione essenzialmente nei casi di imperizia o in quelli "di speciale difficolta'" mentre nessuno "sconto" viene previsto in caso di mancanza di prudenza o diligenza. La prudenza e la diligenza prescindono infatti dalla difficolta' dell' intervento, e devono essere pretesi sempre nel massimo grado da parte dell' operatore sanitario.
Infatti la Suprema Corte ha respinto il ricorso presentato da Antonio C., un ginecologo-ostetrico napoletano, condannato, insieme alla casa di cura, a risarcire i genitori di un neonato venuto al mondo con "danni irreversibili" a un miliardo di vecchie lire per "avere praticato un parto per via naturale a una sua paziente per la quale si sarebbe dovuto intervenire con un cesareo".
Secondo piazza Cavour, nel momento in cui il professionista fa un errore "iniziale nella scelta della tecnica operativa", non ha più importanza "l'assunto del medico" che rivendichi un "evento imprevedibile" nel corso dell'intervento. Invano il medico si è difeso in Cassazione sostenendo che si era trovato di fronte a una "improvvisa emergenza" legata a una "distonia della spalla del feto non prevedibile come rilevato dai consulenti" e che, dunque, aveva dovuto optare per il parto naturale per "evitare la morte del feto".
La Terza sezione civile ha obiettato che "la responsabilità legata all'esercizio dell'attività di un professionista trova applicazione nel criterio della diligenza del buon padre di famiglia". Pertanto, hanno scritto gli Ermellini nella sentenza 583/05, la "responsabilità del medico per i danni causati al paziente postula la violazione dei doveri inerenti al suo svolgimento tra i quali quello della diligenza che va a sua volta valutato con riguardo alla natura dell'attività con implica attenzione e adeguata preparazione".
Di qui la responsabilità dei medici anche per "colpa lieve" quando per "omissione di diligenza o di imprudenza" provochino un "danno nell'esercizio di un intervento".

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ML11a Assenza alla visita di controllo: i motivi devono essere "indifferibili" 
Corte Suprema di Cassazione Sez. Lavoro Sentenza n. 4247 del 2 marzo 2004

S. C. era stato riscontrato assente dal proprio domicilio in occasione di una visita di controllo, effettuata in orario ricompreso nelle fasce di reperibilità durante un periodo di sua malattia, per cui era stato soggetto alle sanzioni previste dalla legge.
Il C. aveva chiarito di essersi recato nella mattina in questione a visita medica presso il proprio medico curante, per il prescritto controllo della pressione in quanto affetto da "epistassi posteriore da ipertensione arteriosa".
Il Giudice di I grado aveva accolto la tesi di S.C., che veniva invece respinta in sede di appello.
I giudici di appello osservavano infatti che la circostanza che il C. si fosse recato nell'ambulatorio del proprio medico per il controllo della pressione (necessario essendo egli affetto da epistassi posteriore da ipertensione arteriosa) non poteva giustificare la sua assenza al domicilio in orario ricompreso nella fasce orarie di reperibilità.
Si trattava, infatti, di una operazione certamente non indifferibile, la cui necessità non poteva dirsi neppure imprevedibile. Tra l'altro, osserva la Corte territoriale, l'orario di apertura dello studio del medico curante non coincideva del tutto con le fasce orarie di reperibilità. Si trattava pertanto di un adempimento che bene avrebbe potuto essere effettuato in momenti diversi da quelli previsti per le visite di controllo.
La Cassazione confermava questa tesi, condannando il lavoratore: l'assenza ad una visita di controllo domiciliare può dirsi giustificata solo dalla sussistenza di un motivo molto serio, concretantesi nella insuperabile necessità di effettuare un determinato adempimento in orario ricompreso nella fasce orarie di reperibilità. L'onere di fornire tale prova, ovviamente, è a carico del lavoratore (Cass. 23 dicembre 1999 n. 14503).
Il lavoratore riscontrato non reperibile per essersi recato a una visita presso il medico di fiducia, deve provare che la causa del suo allontanamento dal domicilio durante le fasce orarie, pur senza necessariamente integrare una causa di forza maggiore, costituisca, al fine della tutela della salute, una necessità quale mezzo per curare la malattia (Cass. 7 ottobre 1997 n. 9731).
E' necessario in altri termini che il lavoratore provi che la sua assenza è stata determinata da situazioni tali da comportare adempimenti non effettuabili in ore diverse da quelle di reperibilità (Cass. 4 marzo 1996 n.1668). Si tratta di onere probatorio certamente gravoso, ma non impossibile, e quindi esigibile.
La prestazione richiesta dal C. al proprio medico curante, invece, non poteva dirsi urgente e comunque la stessa era sicuramente prevedibile e quindi proprio in quanto tale avrebbe potuto essere preventivamente comunicata all'Istituto previdenziale.
Per questi motivi la Corte rigettava il ricorso del lavoratore.
Daniele Zamperini

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ML11b IVA e prestazioni sanitarie: la parola definitiva

L’ Agenzia delle Entrate ha recentemente chiarito, con Circolare n. 4 del 28.01.2005, alcuni aspetti controversi circa l’ assoggettabilita’ di alcune prestazioni mediche all’ IVA.
La questione si era posta dopo le sentenze della Corte di Giustizia Europea ( sentenze del 20 novembre 2003, cause C-307/01 e C-212/01) che aveva ribadito l’ obbligo di IVA per le prestazioni mediche di carattere peritale.
Sintetizzando la lunga Circolare, la questione puo’ essere cosi’ riassunta:

  • Sono e restano esenti da IVA le prestazioni e le certificazioni finalizzate, in modo diretto o indiretto, alla tutela della salute del singolo o della collettivita’.
  • Sono soggette ad IVA le certificazioni di tipo "peritale" non riconducibili a questi fini.

Per quanto riguarda specificatamente le prestazioni dei Medici di Famiglia, sono esenti da IVA, anche quando rese dietro pagamento di un corrispettivo, le prestazioni rese dai medici di famiglia nell'ambito delle proprie attività convenzionali e istituzionali, comprese quelle attività di natura certificativa strettamente connesse all'attività clinica resa ai propri assistiti e funzionalmente collegate alla tutela della salute delle persone, intesa anche come prevenzione.
A titolo esemplificativo:
- certificati per esonero dalla educazione fisica;
- certificazione di idoneità per attività sportiva;
- certificati per invio di minori in colonie o comunità;
- certificati di avvenuta vaccinazione.

Sono invece soggette ad IVA le prestazioni di natura peritale, cioè quelle tendenti a riconoscere lo status del richiedente rispetto al diritto all'indennizzo o al diritto ad un beneficio amministrativo o economico.
Ad esempio:
- Certificazione per assegno di invalidità o pensione di invalidità ordinaria;
- Certificazione di idoneità a svolgere generica attività lavorativa;
- Certificazioni peritali per infortuni redatte su modello specifico;
- Certificazione per riconoscimento di invalidità civile.

Sono gratuite e quindi non soggette ne’ a pagamento di un corrispettivo ne’ dell’ IVA determinate prestazioni la cui obbligatorietà deriva per legge dalla natura dell'attività esercitata. Si tratta ad esempio di:
- dichiarazione di nascita, dichiarazione di morte;
- denunce penali o giudiziarie;
- denunce di malattie infettive e diffusive;
- notifica dei casi di AIDS;
- denuncia di malattia venerea;
- segnalazione di tossicodipendenti al servizio pubblico;
- denuncia di intossicazione da antiparassitario;
- denuncia della condizione di minore in stato di abbandono;
- certificati per rientro al lavoro o per rientro a scuola a seguito di assenza per malattia.

Esame di casi particolari:

Esempi di certificazioni esenti da IVA:
a) i controlli medici regolari, istituiti da taluni datori di lavoro o da talune compagnie assicurative, compresi i prelievi di sangue o di altri campioni corporali per verificare la presenza di virus, infezioni o altre malattie;
b) il rilascio di certificati di idoneità fisica ad esempio a viaggiare;
c) il rilascio di certificati di idoneità fisica diretti a dimostrare nei confronti di terzi che lo stato di salute di una persona impone limiti a talune attività o esige che esse siano effettuate in condizioni particolari.

Attivita’ medico-legali di tipo peritale: soggette ad IVA
Accertamenti medico-legali effettuati dall'INAIL,
sulla base di convenzioni stipulate con aziende, connessi alle istanze di riconoscimento di "cause di servizio" presentate da lavoratori dipendenti in relazione ad infortuni, stati di infermità, inabilità assoluta o permanente: soggetti ad IVA
Prestazioni rese dalle commissioni mediche di verifica i
n relazione alle istanze di pensione di invalidità, se libero-professionali: soggette ad IVA
Prestazioni rese dai medici
libero professionisti componenti delle Commissioni mediche per le patenti di guida: esenti da IVA - Le somme dovute dagli utenti per questi fini sono esenti da IVA.
Visite mediche per il rilascio o il rinnovo di patenti: esenti da IVA
Prestazioni del medico competente: esenti da IVA
Prestazioni di chirurgia estetica: esenti da IVA
Prestazioni intramoenia di medicina legale: soggette ad IVA (fatturate dall’ Ente).

Per le prestazioni effettuate anteriormente a questa circolare, valgono i principi enunciati dall’ Agenzia delle Entrate in data 11/06/2004: " qualora il medico abbia seguito le indicazioni ministeriali che prevedevano il regime di esenzione, per il principio di tutela del legittimo affidamento, è esclusa nei suoi confronti l’applicazione di sanzioni.".

Alcune precisazioni e considerazioni:

  • L’ aliquota IVA da applicare e’ quella del 20%
  • La fatturazione di prestazioni soggette ad IVA comporta alcuni obblighi fiscali (tenuta di registri, versamenti periodici, commercialista) che hanno un costo aggiuntivo per il medico.
  • Resta salvo il diritto, per il medico, di effettuare prestazioni e certificazioni gratuitamente; qualora invece richieda il pagamento, deve rispettare le tariffe minime dell’ Ordine, ma non e’ obbligato a tenersi sul minimo.
  • Il sanitario che effettui prestazioni soggette ad IVA in modo assolutamente raro e saltuario puo’ quindi valutare la convenienza di effettuarle gratuitamente; in alternativa e’ consigliabile tener conto, nella scelta della tariffa da applicare, di queste spese aggiuntive.

Daniele Zamperini

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ML1/b  Il medico e la legge: cap. 10: Responsabilità professionale e dovere d'informazione (Avv. Nicola Todeschini)

Si diceva poc'anzi della rilevanza autonoma del dovere d'informazione sussistente in capo al sanitario, quale aspetto ulteriore da analizzare in questa sede. Ebbene, l'evoluzione giurisprudenziale e dottrinale in tema di dovere d'informazione, nell'ottica del più ampio problema di tutela del "consumatore- cliente", in quanto parte più debole[1], assume nel nostro caso riflessi di assoluta emergenza, anche in considerazione della loro recente manifestazione.
Del tutto confacente alla presente disamina risulta l'analisi di alcuni casi interessanti, in special modo in ordine al rilievo del dovere d'informazione. Uno di essi è certamente quello del piccolo Jod
[2], caso discusso in primo grado presso il Tribunale di Padova [3] e giunto in Cassazione [4] dopo la conferma in Appello, nel 1994.
           
Invero, all'attenzione dei giudici, nel caso di specie, non è l'indiligente esecuzione dell'intervento di interruzione della gravidanza, bensì l'omessa informazione che il sanitario avrebbe dovuto garantire alla paziente, in merito alla necessità di sottoporsi a successivi controlli, soprattutto in considerazione della prevedibilità dell'esito negativo dell'intervento subito, e dalle intervenute dimissioni volontarie della paziente stessa. Ebbene, la Corte di Cassazione ha sanzionato il comportamento del sanitario -rectius della struttura sanitaria- proprio in punto di violazione del dovere d'informazione, a riprova della sua autonoma rilevanza, non solo in quanto presupposto ineliminabile per la prestazione del consenso da parte del paziente, ma anche come dovere che trova la sua origine nella condotta diligente del sanitario. Se ne può apprezzare altresì la necessaria consistenza nel tempo: il dovere d'informare il paziente non cessa né dopo la prestazione del consenso -detto per l'appunto <<informato>>- né dopo le dimissioni volontarie che eventualmente il paziente stesso renda.
Ma l'occasione è stata propizia anche per consentire alla Corte di Cassazione di criticare le prese di posizione dei giudici di merito in punto di individuazione degli interessi protetti dalla legge 194/1978 sull'interruzione di gravidanza; in considerazione dei profili d'interesse che tale pronuncia rappresenta ai fini del prosieguo della disamina in corso, ritengo opportuno riprenderne alcuni passaggi.  La Suprema Corte ha nell'occasione sottolineato come non sia ammissibile concedere un risarcimento del danno patrimoniale subito dai genitori, per l'inaspettata nascita del figlio, sulla base dell'assunta difficile condizione economica degli stessi. Invero, la Corte di Cassazione ha ricordato che in sostanza la legge non consente l'interruzione della gravidanza solo perche'  una donna versi in disagiate condizioni economiche, ma la consente soltanto se dette condizioni possano influire negativamente sulla salute della donna.
L'interesse protetto dalla norma e' quindi la salute della donna; il diritto all'interruzione della gravidanza e' riconosciuto solo in ragione della tutela del detto interesse.  Da cio' consegue che in caso di accertata responsabilita' del sanitario per la mancata interruzione della gravidanza, il diritto al risarcimento del danno puo' essere riconosciuto alla donna non per il solo fatto dell'inadempimento dell'obbligazione che il sanitario era tenuto ad adempiere, ma se sia anche provata la sussistenza della messa in pericolo o di un danno effettivo alla salute fisica o psichica della madre.
Secondo i giudici della Suprema Corte il mancato riconoscimento dell'importanza di una corretta individuazione dell'interesse protetto dalla norma, ha compromesso l'obiettiva analisi da parte dei giudici di merito. Coerentemente quindi afferma la Corte di Cassazione che:
Il ragionamento della Corte di merito e' errato, perche', tenuto conto dell'interesse protetto dall'art. 4, il danno non puo' essere individuato nel solo fatto di aver dovuto prima del previsto sopportare gli oneri economici conseguenti alla intempestiva nascita del figlio, se non sia positivamente accertato che tale fatto abbia messo in pericolo ovvero abbia inciso negativamente sulla salute della donna, sotto l'aspetto fisico o psichico, nel qual caso il risarcimento del danno andrebbe determinato in quella somma necessaria a rimuovere le difficolta' economiche idonee ad incidere negativamente sulla salute della donna ovvero a risarcire quest'ultima dei danni alla salute in concreto subiti.

Proseguendo nella disamina dei casi d'interesse per il corretto inquadramento della materia, mi propongo di analizzare un aspetto forse in parte trascurato. Se invero è stato a sufficienza sottolineato il ruolo dell'informazione e del consenso relativo, come elemento costitutivo del contratto di prestazione d'opera professionale, dal quale scaturisce il consenso come legittimante l'intervento del sanitario sulla persona del paziente, non si è forse argomentato a sufficienza in merito al perdurare del dovere d'informazione anche dopo l'effettuazione della terapia illustrata e dell'indagine diagnostica condotta.
Un altro caso specifico, ancora inedito, può certo meglio descrivere l'autonoma rilevanza del dovere d'informazione: una donna, portatrice sana di una patologia a rischio per la gravidanza[5], rimasta incinta della seconda figlia, si reca presso il proprio ginecologo, al quale affida anche l'assistenza di tale seconda gravidanza. Su consiglio dello stesso medico, la paziente si reca presso altro presidio ospedaliero, al fine di effettuare un esame molto delicato -prelievo dei villi coriali- necessario a stabilire se anche il frutto del secondo concepimento fosse portatore della patologia di origine materna. L'esame comporta delle conseguenze devastanti sulla salute del feto, rilevate, tramite indagini ecografiche, solo intempestivamente -e colpevolmente- quando i termini per l'eventuale interruzione della gravidanza sono ormai decorsi. A questo punto il medico non ritiene di informarne i genitori,
"supponendo che simili anomalie fossero correlate a malformazioni degli organi interni tali da originare l’interruzione naturale della gravidanza o da non consentire la sopravvivenza dopo il parto del nascituro" .
Al termine della gravidanza la paziente, con parto spontaneo, da' alla luce una bambina, la quale risulta affetta da un quadro polimalformativo[6] particolarmente grave. Fin qui i fatti.
Cercherò ora di trarne alcune osservazioni.

Se l'informazione e il consenso completo e cosciente del paziente all'indagine diagnostica ne legittimano l'effettuazione, integrando gli estremi della condotta diligente del professionista, quid iuris relativamente alla mancata indicazione al paziente degli esiti infausti dell'indagine diagnostica intrapresa ?
Il tema è delicato e risente di valutazioni non solo tecniche e professionali ma anche e soprattutto umane e culturali, tanto più quando l'informazione investa prognosi gravi o infauste. Tra i fautori della tesi che esprime il proprio favor nei confronti della non manifestazione della verità in tutta la sua crudezza, si segnalano alcuni principi quali quello della <<beneficialità>> che, prevalendo sul dovere di non mentire, fonderebbe la propria validità sull'esigenza di non recare danno al paziente anche dal punto di vista psichico, e ancora quello dell'indesiderabilità del paziente di conoscere la verità quando spiacevole.
A tali argomentazioni si oppongono altre valutazioni che prospettano, al contrario, una violazione della libertà ed autonomia del paziente, e la presunta volontà dello stesso di essere correttamente informato.
Invero, il rapporto fiduciario che con il medico si instaura, presuppone un rapporto di reciproca informazione e lealtà, sulla base del quale si concreta l'affidamento del paziente nel medico stesso. Interrompere tale tipo di rapporto, delicatissimo e labile, consentendo una sorta di compressione di tali principi, in nome di valutazioni del tutto personali e non verificabili, potrebbe essere una scelta altrettanto ardua e non esente da pericoli, da relegare forse ad un limitato numero di casi, non definibili a priori, nei quali l'emersione di particolari debolezze psichiche unitamente a quadri clinici disperati, possano suggerire comportamenti di segno relativamente opposto rispetto al dovere ordinario d'informazione completa.
Che il medico debba tenere sempre viva la speranza del paziente, giacché è comunque di fondamentale importanza, anche al cospetto di una prognosi infausta, che il suo quadro psicologico sia capace di sostenere scelte e produrre reazioni importanti di fronte alla malattia, è dato di fatto ineliminabile, anche nella prospettiva che la prognosi infausta possa rivelarsi eccessivamente pessimistica. In tali casi la comunicazione, per così dire filtrata e non del tutto "fedele", potrebbe risultare accettabile se funzionale ad un possibile risultato positivo e migliorativo, per quanto in via di presunzione, del quadro complessivo del paziente. Non sussistendo al contrario tali presupposti risulta più complesso rinvenire una causa giustificativa capace di poter derogare validamente al dovere di una completa informazione.
           
La complessità del tema potrebbe ulteriormente aggravarsi in ipotesi, come quella di cui si discute, nelle quali il destinatario dell'informazione sia persona diversa da quella che di fatto è investita in concreto dalla prognosi infausta: mi riferisco al caso -per ultimo descritto- della donna in gravidanza, alla quale venga diagnostica, ma non comunicata, la presenza di malformazioni del feto. In tal caso il profilarsi dei doveri d'informazione in capo al medico potrebbe risentire di alcune considerazioni aggiuntive, quanto alla determinazione del suo contenuto. Il dato di fatto dal quale è impossibile prescindere consiste, come è chiaro, nella circostanza che il destinatario della diagnosi infausta è la madre, pur essendo pronosticate o già evidenti delle malformazioni che interessano il feto. Che il destinatario dell'informazione debba essere la madre non è in discussione, che l'induzione alla speranza possa avere l'identica valenza funzionalizzata ad un potenziale  -per quanto remoto-  miglioramento  delle condizioni del malato -il feto- è considerazione da valutarsi, invero, con molta attenzione.
Il quesito che sembra sottendere tali valutazioni è il seguente: può sostenersi che la comunicazione alla madre della diagnosi infausta ed intempestiva, per decorrenza dei termini previsti per l'interruzione di gravidanza, integri gli estremi di un comportamento diligente del sanitario ? L'applicazione del succitato principio di beneficialità avrebbe fondamento quanto alla sua funzione di preservare in qualche modo l'integrità psicofisica della madre e/o del feto ? Oppure dovrebbero comunque ritenersi prevalenti i doveri d'informazione posti in capo al medico che ha eseguito l'esame e rilevato, seppur intempestivamente, la malformazione esistente ?
Le  osservazioni di carattere deontologico appena accennate, aprono il varco per l'accesso a quelle più propriamente giuridiche. Che la diagnosi intempestiva integri di per sé gli estremi della colpa professionale -accertata nell'esempio poc'anzi illustrato- è profilo da valutarsi separatamente a quello altrettanto importante dell'omessa  comunicazione tardiva. La scelta che si profila al medico è dunque se comunicare alla madre l'intempestiva diagnosi infausta, ovvero se evitarle lo shock, al fine di consentirle di portare innanzi una gravidanza senza che il turbamento psicologico possa in qualche modo influire negativamente sugli esiti della gravidanza stessa. 
La scelta è di non poca gravità,  umana, professionale, morale.
Altrettanto ardua è la valutazione che di tale comportamento è opportuno operare al fine di verificare la condotta del sanitario in punto di responsabilità. Possono venire in soccorso le valutazioni ricavabili dalla pregressa storia clinica e psicologica della madre, dalle sue concrete aspettative alle prevedibili complicazioni che potevano essere tenute in debita considerazione dal medico e comunicatele fin dall'inizio.
Ove però risulti già obiettivamente noto un quadro clinico di rilevante pericolo, essendo la madre affetta da una patologia che comporti rischi per la gravidanza in corso, ne consegue in capo al medico un dovere di diligente informazione preventiva, in merito ai pericoli che tale quadro clinico poteva suggerire, commisurata allo stato delle conoscenze mediche di tempo e di luogo.
L'errore diagnostico, indipendentemente dalla sua inescusabilità, aggrava il quadro da valutare, inserendo un ulteriore motivo di debolezza da parte della destinataria dell'informazione, unitamente al prodursi di una situazione di impossibilità di intervenire sulla gravidanza in atto, per decorrenza dei termini utili per l'eventuale interruzione della stessa. A tutto ciò si aggiunge la valutazione circa la gravità della malformazione rilevata, in rapporto all'impatto che sulla madre la notizia può avere.
Il comportamento del medico, in punto di violazione del suo dovere d'informazione, deve essere valutato tenendo in considerazione tutti questi elementi concreti che hanno arricchito di profili di intensa emotività e conflittualità l'intera vicenda.
In che misura possa soccorrere la scelta del medico il principio di beneficialità e di tutela dell'integrità psicofisica della madre è fattore da valutarsi con estremo rigore, in considerazione anche della responsabilità del medico che ha causato l'aggravarsi del quadro con l'intempestiva diagnosi. Tale particolare ritengo non possa essere sottovalutato.
Il punto è se potevano ritenersi prevalenti le esigenze di tutela del normale esito del parto, al cospetto della successiva notizia, che pur si sarebbe appalesata al momento della nascita della piccola malformata, provocando anche in quella sede delle ripercussioni violentissime sulla psiche della madre che, oltre al dolore per la constatazione delle condizioni fisiche della neonata, avrebbe dovuto fare i conti con una sensazione di tradimento delle aspettative e del rapporto di fiducia con il medico, non meno gravi.
A sommesso avviso dello scrivente, una soluzione a tali deleterie conseguenze poteva esserci, ed era quella di informare la madre dell'intempestiva diagnosi di lesioni malformanti che interessavano purtroppo la piccola, impegnandosi semmai in quella sede a fornire l'informazione nel segno della salvaguardia dell'equilibrio psicofisico della madre, potendosi in tal modo valutare con benevolenza la mancata comunicazione della gravità delle malformazioni stesse nella loro completezza, e mettendo comunque la madre in condizione di assorbire, per quanto possibile, il probabile contraccolpo psicologico, con tutti gli strumenti di assistenza che la struttura ospedaliera poteva offrire su richiesta del medico interessato.
Appare diversamente non del tutto accettabile che la scelta dell'entità e del tempo delle sofferenze, che immancabilmente la madre avrebbe subito, sia del tutto ed incondizionatamente lasciata alla decisione -del medico- di non informare la madre stessa dell'intempestiva nefasta diagnosi, impedendo di fatto a quest'ultima di esercitare, per quanto in condizioni assai limitate, la propria autonomia e libertà di conoscenza, e interrompendo la fiduciarietà del rapporto, tradendo in tal modo l'affidamento che la paziente aveva impegnato nel rapporto con il suo medico.
           
In senso conforme sembra essersi pronunciata la giurisprudenza, in una sentenza del Tribunale di Roma[7], quando ha dovuto affrontare un caso simile a quello appena descritto: in questo caso però sussiste una differenza di rilievo consistente nella valutazione temporale dei comportamenti che si sono succeduti. I genitori, invero, si sono rivolti ad un Centro di diagnostica prenatale, dopo la decorrenza dei novanta giorni previsti dalla legge n. 194/1978, vale  a  dire  allorquando la  madre, quand'anche  avesse  appreso, a  seguito  di esami non negligenti, le notevolissime  malformazioni del  nascituro,  non  avrebbe, comunque, potuto legittimamente  abortire, ne' ai sensi dell'art. 4 della legge n. 194  del 1978, ne' ai sensi dell'art. 6 della cit. legge, dato che  le pur   gravissime   malformazioni,   riguardando il  solo  apparato  scheletrico ed articolare, senza intaccare la sfera della coscienza e  delle facolta'  intellettive del minore, rimasta del tutto integra, e  senza  comportare  una prognosi infausta circa la durata di sua vita, non sono  tali  da  determinare un  grave  pericolo  per il benessere psicofisico della  madre.  E' invece risarcibile  il  danno biologico cagionato ai  genitori di una  neonata  cui  non  siano state diagnosticate, in sede di negligenti esami ecografici prenatali, notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari.
A ragione pertanto i giudici hanno escluso la sussistenza del nesso di causalità tra il danno subito dal feto e la condotta dei sanitari, aprendo però una breccia consistente quanto ad altra domanda dei genitori, ossia quella relativa al risarcimento del danno, da loro patito, in ragione della mancata informazione sull'esistenza delle malformazioni.
In questo senso appare simile la decisione in questione rispetto al caso analizzato in precedenza, nel quale in realtà la diagnosi intempestiva è stata seguita dalla presa di coscienza -altrettanto intempestiva- da parte del medico, delle malformazioni, sulle quali lo stesso sanitario ha scelto di tacere, mentre nel caso analizzato dal Tribunale di Roma non è in questione una scelta, in quanto sembra che i sanitari non abbiano potuto effettuarla, data la negligente condotta in sede di diagnosi. In altre parole non hanno comunicato ciò che non avevano appreso per la negligente effettuazione dell'indagine diagnostica.
           
Ad ogni buon conto il rilievo che assume maggior importanza, e che accomuna, seppur parzialmente, i casi, è quello che attiene, da un lato alla richiesta del danno sofferto per non aver potuto accedere alle possibilità di interruzione della gravidanza, dall'altro quello attinente alla richiesta di risarcimento del danno patito per aver subito, al momento del parto, uno shock certamente superiore a quello che sarebbe derivato dalla consapevolezza delle malformazioni, ove fossero state comunicate tempestivamente. Le scelte del Tribunale di Roma sembrano condivisibili anche sotto tale profilo, trovandovi conferma l'ipotesi interpretativa dallo scrivente sommessamente avanzata in precedenza. I giudici affermano infatti che: 
E' invece risarcibile  il  danno biologico cagionato   ai  genitori  di   una   neonata  cui  non   siano  state diagnosticate,  in  sede di  negligenti  esami  ecografici prenatali, notevolissime malformazioni scheletriche ed articolari.

Il mezzo attraverso il quale la rilevanza autonoma del dovere d'informare assume significato peculiare, sussiste proprio nel riconoscimento che i giudici danno al trauma che i genitori hanno subito per aver appreso, solo all'atto della nascita della piccola, la notizia della triste realtà, subendo in tal modo un contraccolpo psicologico certamente più grave di quanto non sarebbe accaduto qualora l'informazione fosse stata tempestiva.
Ma la pronuncia appare importante anche perché fa trasparire un ulteriore profilo d'interesse, secondo quanto affermato, in sede di commento alla pronuncia, da Dogliotti[8], lasciando intendere che sarebbe stato risarcibile anche il danno relativo alle spese mediche e alla lesione della salute psichica dei genitori, ove gli esami fossero stati richiesti prima della decorrenza dei termini per l'interruzione consentita della gravidanza, concretandosi la possibilità di scelta -anche se solo eventuale- diretta all'interruzione della gravidanza stessa. Tuttavia a tale rilievo sembra opporsi altra argomentazione, tratta dal brano di sentenza più sopra riportato[9], e riferita al diniego di risarcimento delle maggiori spese sostenute dai genitori a causa della nascita di un figlio in seguito all'infelice esito dell'intervento di interruzione di gravidanza. Nelle pagine precedenti si è già illustrato il ragionamento della Suprema Corte, secondo la quale, in aperto contrasto con i giudici di merito, la corretta individuazione del bene tutelato dagli artt. 4 e 6 della L. 194/1978 è la salute della madre, non le condizioni economiche dei genitori. Pertanto il danno risarcibile sembra individuabile nella misura in cui vi sia stata una lesione della salute della madre.
           
Quest'ulteriore osservazione consente di completare l'analisi che ho tentato di illustrare, in ordine al caso inedito che ho descritto, potendo affermare che se l'errore diagnostico si verifica in un periodo che consenta ancora l'intervento per interruzione della gravidanza, spetta alla madre, che ne faccia richiesta, un risarcimento del danno sia sotto il profilo patrimoniale -spese mediche e similari- sia sotto quello non patrimoniale, se provata, secondo quanto detto poc'anzi, una lesione alla salute della richiedente, spettando altresì ad entrambi i genitori un congruo risarcimento relativo al danno biologico da essi subito per aver appreso -ignari delle malformazioni esistenti- la realtà dolorosa della salute della figlia solo al momento della nascita, quando la loro attesa era del tutto inconsapevole e ben lontana dal prefigurarsi un accadimento sì penoso.
           
Infine, rimanendo sul terreno dell'individuazione dell'esatta dimensione del dovere d'informazione, può essere utile sottolineare un aspetto al quale si è fatto incidentalmente accenno in queste pagine, in merito all'interrogativo che nasce dall'individuazione del persistere del dovere d'informazione del medico anche in presenza di dimissioni volontarie del paziente. Ebbene la soluzione accolta è nel senso della permanenza di tale dovere, tanto più nel caso in cui il paziente abbia deciso di dimettersi volontariamente, creando potenzialmente una situazione di maggior rischio, a fronte della quale la diligenza del professionista deve esprimere uno sforzo ulteriore, e del tutto coerente con le premesse fin qui illustrate, affinché la scelta del paziente possa essere, per quanto possibile, cosciente.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

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ML3 - Il medico e la legge. Cap 11:   La colpa lieve e la colpa grave (Avv. Nicola Todeschini)

Come già anticipato nel capitolo relativo all'inquadramento giuridico, la colpa lieve e la colpa grave rilevano soprattutto in riferimento all'applicabilità dell'art. 2236 cod. civ. alla responsabilità professionale del medico.
I concetti qui in esame risultano pertanto intimamente connessi con quanto affermato in tema di diligenza professionale come criterio di responsabilità e con l'individuazione del c.d. standard di riferimento per la valutazione di adeguatezza e diligenza nella prestazione. Infatti, secondo un principio ormai consolidato anche nell'elaborazione giurisprudenziale[1], l'area della  responsabilità per colpa lieve risulta ormai molto estesa, giacché la tendenza restrittiva, manifestatasi nei confronti dell'area di applicazione dell'art. 2236 cod. civ., è andata sempre più acuendosi, prima con l'esclusione dell'applicabilità ai casi d'imprudenza e incuria, poi con l'estendersi del patrimonio di conoscenze richieste al professionista medio.
Infatti si configura la responsabilità professionale del medico anche per colpa lieve, in applicazione dell'art. 1176, II c. cod. civ., quando il professionista medesimo non abbia posto in essere una prestazione <<diligente>> per fronteggiare un caso ordinario, ossia quando si sia trovato a prestare la propria opera non per risolvere problemi tecnici di speciale difficoltà, ma dovendo esercitare la sua professione al cospetto di casi ordinari per affrontare i quali si ritiene necessario, nonché doveroso ed adeguato, il bagaglio tecnico del professionista medio appartenente al medesimo settore[2].
Peraltro, come già anticipato, la responsabilità del professionista sarà, per così dire, relegata alla colpa grave solo qualora il medesimo abbia incontratodovuto affrontare, nell'esercizio della propria professione, problemi tecnici di speciale difficoltà e per imperizia abbia cagionato il danno.
Non, si badi bene, per incuria o imprudenza, ritenendosi tali condotte degne delle valutazioni più severe e rigorose.
A questo proposito risulta chiaro come non sarebbe apparso congruo ammettere una limitazione di responsabilità, proprio al cospetto di problemi tecnici di speciale difficoltà, in relazione a comportamenti, quali l'incuria e l'imprudenza, che tanto meno risultano tollerabili quanto più l'impegno diligente e l'attenzione del professionista debbono essere richiamati dall'emersione di un caso non ordinario.
Concludendo, una valutazione più cauta della responsabilità in concomitanza con problemi di speciale difficoltà altro non è che un correttivo di agevole comprensione, che entra in gioco quando anche la più diligente delle prestazioni trova ostacoli di ordine tecnico tali da travalicare le conoscenze attinenti allo standard professionale di riferimento. E' la colpa lieve guardata attraverso l'opportuno filtro della ricorrenza dei problemi tecnici di speciale difficoltà[3].
A titolo esemplificativo è stata ritenuta sussistente la colpa grave[4] in capo ai sanitari,  medici  dipendenti di  un  ente ospedaliero, in quanto, nell'attività  di  assistenza  al parto, hanno scelto <<una metodologia  in  presenza  di dati  obiettivi    che  ne imponevano  l'esclusione>>; e ancora quando il  medico curante, fattosi sostituire  per  un certo  periodo    da un altro medico, <<in assenza di tenuta  di uno  schedario  degli  assistiti, non  abbia    informato[5] il  sostituto  di una  grave    ed accertata intolleranza ad un determinato farmaco  da parte  di  un paziente (nella specie il medico sostituto, non avvisato dell'intolleranza, prescrisse ad una paziente il farmaco "Voltaren"  rispetto al  quale  la  stessa aveva  già    dato segni di allergia   e la  cui  assunzione  ne provoco'  la  morte  per "shock" anafilattico)>>; infine quando l'odontoiatra[6], <<in presenza di problemi tecnici di speciale difficoltà,   abbia  praticato un    intervento  chirurgico in  sito  diverso  da quello su cui si sarebbe dovuto svolgere  e  senza  tenere conto    di  un preesistente stato di invalidità del paziente>>.
Avv. Nicola Todeschini
www.studiolegaletodeschini.it
membro dello Studio Legale Consumerlaw

[Per motivi di spazio l' opera completa delle note e' scaricabile da: www.scienzaeprofessione.it ]

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OLTRE LA PROFESSIONE:  OPINIONI E  PENSIERI  

ML4 La natura alla ricerca di un equilibrio (Di Massimiliano Fanni Canelles)

Sempre più frequentemente nuovi virus compaiono nello scenario sanitario mondiale, non è passato neanche un anno dalla nascita del coronavirus responsabile della SARS che un altro microorganosmo in grado di infettare l'uomo ha mietuto le sue vittime umane. Dal 1961 si è a conoscenza che il virus H5N1 infetta i volatili provocando una malattia simile all'influenza umana. Fino a poco tempo fa non erano stati segnalati casi di attacchi di questo virus al genere umano ma nel maggio del 1997 in un ospedale di Hong Kong si registrò il decesso di un bambino di tre anni infettato proprio dall'H5N1. E proprio il virus H5N1 è simile al virus che negli ultimi giorni ha provocato la morte di dieci bambini ed un adulto all'Ospedale nazionale di Hanoi. Nel 2003 lo stesso virus ha raggiunto anche l'Europa, colpendo allevamenti di uccelli in Belgio, Italia e in Olanda dove un veterinario è morto proprio per aver contratto il virus. Come nel caso del coronavirus della sindrome respiratoria acuta anche per l'H5N1 i grandi allevamenti di volatili rappresentano delle immense riserve dove i virus possono replicarsi ad alta velocità e raggiungere la virulenza e la modificazione genetica necessaria a permetterli di infettare una nuova specie. 
Il sistema di propagazione virale chiamato "salto di specie" è infatti comune in molte "nuove" malattie virali come l'AIDS, la Spagnola e l'Asiatica, la SARS e la nuova influenza provocata dall'H5N1. Infatti molte delle 500 specie virali conosciute, e chissà quante di quelle ancora sconosciute che infettano l'uomo, sono nate da mutazioni di virus specifici per altre specie animali (pecore, polli, maiali), che replicazione dopo replicazione acquisiscono la capacità di trasmettersi anche all'uomo grazie a modifiche del loro patrimonio genetico. Questo fenomeno sembra maggiormente frequente nei luoghi dove animali domestici e uomo coesistono in stretto contatto, come avviene nei paesi del sud-est asiatico.
Il percorso evolutivo di questi virus è semplice e terrificante: grazie alla loro capacità mutante e portati da animali selvatici infettano gli uccelli di un cortile o di un allevamento, quindi continuando a mutare il loro patrimonio genetico passano ai maiali che vivono spesso a stretto contatto con il pollame. Quindi grazie all'ennesima mutazione riescono a penetrare nelle cellule dell'uomo favoriti dalla promiscuità che nei paesi orientali è usuale avere con i suini. Il tutto si complica con il rischio di epidemie favorite certamente dallo scarso igiene e dalle condizioni fisiche spesso debilitate delle popolazioni del sud est asiatico ma soprattutto per l'assenza di protezioni immunitarie specifiche contro la nuova specie virale.
Per fortuna quando avviene il salto di specie, come è successo con il virus della Sars e come sta succedendo per l'H5N1, benché all'inizio sia molto aggressivo verso il nuovo ospite, il virus successivamente si placa, la malattia appare progressivamente meno grave e la sua diffusione tende a diminuire. Questo avviene probabilmente per una strategia globale di sopravvivenza, infatti al virus non conviene uccidere tutti gli organismi che possono ospitarlo perché morirebbe anche lui con loro. Quindi continua a mutare il proprio patrimonio genetico anche dopo aver raggiunto l'uomo in modo da ridurre la sua aggressività che gli è servita prima per raggiungere la specie più longeva ma che adesso può esserli dannosa. Questa forma di "diplomazia" che i virus posseggono evita che si formino gravi pandemie che potrebbero sterminare milioni di persone ma anche miliardi di virus.
Grazie ai progressi nel campo medico degli ultimi 50 anni l'uomo ha il compito di evitare che possano comparire eccezioni a questa regola come è successo nel 1918 e nel 1957 con la Spagnola prima e l'Asiatica poi che hanno sterminato milioni di vite umane. I salti di specie e le mutazioni frequenti rendono però complicata la messa a punto di farmaci antivirali e la prevenzione è l'unica arma efficace che oggi possediamo. Per questo motivo l'OMS costantemente controlla la salute degli allevamenti animali in tutto il mondo ed al primo segnale di un nuovo focolaio di infezione ne ricerca la causa ed elimina gli animali infetti. Solo in Italia negli ultimi 3-4 anni sono stati abbattuti per questo motivo tra i 10 e i 12 milioni di polli e tacchini colpiti da influenza aviaria, nel resto del mondo e soprattutto nei paesi orientali sono centinaia di milioni gli animali soppressi sui quali si sospetta la presenza di un virus in procinto di ottenere una mutazione genetica a lui favorevole.
Ma tutto questo potrebbe non bastare, concentrare tutta l'attenzione sulle caratteristiche di aggressività di quel o quell'altro virus potrebbe distogliere l'attenzione al vero nocciolo del problema. L'epidemia di SARS, l'AIDS, L'H5N1 non sono casi assestanti ma probabilmente sono l'espressione di un fenomeno nei quali i virus sono solo le ultime pedine di un gioco che comincia molto prima e del quale non abbiamo ancora capito le regole. Forse la nascita di specie virali diverse è sempre avvenuto e noi non eravamo in grado di accorgercene, oppure il "salto di specie" potrebbe essere un metodo della Natura per frenare la crescita esponenziale della popolazione umana. Forse, ma molto più probabilmente tutto questo è il tentativo che la Natura sta attuando per salvaguardare la vita sulla terra. L'uomo con le sue scoperte e la sua tecnologia sta prevaricando sulle leggi che per miliardi di anni hanno gestito l'evoluzione della vita . La vita come noi la conosciamo è possibile infatti grazie all'equilibrio tra specie diverse che gli scienziati chiamano biodiversità. L'uomo oggi sta alterando questo equilibrio eliminando per profitto, per scopi bellici o per esigenze sanitarie organismi viventi che si sono conquistati con i millenni il loro diritto alla vita. E' quindi assolutamente "naturale" che le nicchie svuotate dall'agire dell'uomo vengano soppiantate con nuove forme di vita. Non dobbiamo meravigliarci per questo, non dobbiamo terrorizzarci per questo, è infatti grazie a tutto questo che la vita non cessa di esistere.

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ML6 - LE NOVITA' DELLA LEGGE (Di Marco Venuti)

PRINCIPALI NOVITA' IN GAZZETTA UFFICIALE
mese di gennaio-febbraio 2005

La consultazione dei documenti citati, come pubblicati in Gazzetta Ufficiale, è fornita da "Medico & Leggi" di Marco Venuti: essa è libera fino al giorno 23.03.2005. Per consultarli, cliccare qui

DATA GU TIPO DI DOCUMENTO TITOLO DI CHE TRATTA?
03.02.05 27 Decreto del Ministero della Salute del 02.12.04 Modalità per il rilascio delle autorizzazioni all'esportazione o all'importazione di organi e tessuti .............
05.02.05 29 Provvedimento della Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano del 13.01.05 Accordo, ai sensi dell'articolo 4 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, tra il Ministero della salute e i presidenti delle regioni e delle province autonome, avente ad oggetto «Linee guida recanti indicazioni ai laboratori con attività di diagnosi microbiologica e controllo ambientale della legionellosi» .............
10.02.05 33 Decreto del Presidente della Repubblica n. 334 del 18.10.04 Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione Provvedimenti che riguardano l'assistenza sanitaria agli stranieri e il riconoscimento di titoli accademici sanitari esteri
17.02.05 39 Decreto del Ministero della Salute del 30.12.04 Norme procedurali per l'effettuazione dei controlli anti-doping e per la tutela della salute, ai sensi dell'art. 3, comma 1, della legge 14 dicembre 2000, n. 376 .............
21.02.05 42 Decreto del Ministero della Giustizia n. 336 del 16.12.04 Regolamento recante norme in materia di procreazione medicalmente assistita .............
22.02.05 43 Decreto del Ministero della Salute del 17.12.04 Prescrizioni e condizioni di carattere generale, relative all'esecuzione delle sperimentazioni cliniche dei medicinali, con particolare riferimento a quelle ai fini del miglioramento della pratica clinica, quale parte integrante dell'assistenza sanitaria .............

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