"Scienza e Professione"
Reg. Trib. Roma n. 397/2004 del 7/10/2004 - D.Resp. Daniele Zamperini

Consenso informato e limiti etici nelle sperimentazioni cliniche
Di Luca Puccetti

Consenso informato e diversità storico culturali

Sempre più spesso il medico e le amministrazioni pubbliche o private che erogano servizi sanitari fanno del consenso informato un vero e proprio totem. Non desidero trattare degli aspetti giuridici del consenso informato. Vorrei invece cercare di ragionare sui limiti intrinseci che sono connaturati a questo atto. occorre prima di tutto notare che il consenso informato è uno dei tanti aspetti della colonizzazione culturale che l'Italia ha subito ad opera della supremazia economica, politica, militare, linguistica e mediatica del mondo anglosassone. Una civiltà che, pur apparentemente simile alla nostra, presenta differenze rilevanti, non solo negli aspetti più evidenti, ma anche in quelli più reconditi, quali ad esempio il concetto di libertà individuale ed i limiti nei confronti della collettività dei diritti individuali, delle implicazioni dell' habeas corpus. Perchè mai dovremmo importare ed implementare un modello, quale quello del consenso informato, nella nostra dimensione? Forse che la pena di morte o la diversissima sensibilità in tema di compenetrazione tra diritto alla difesa della proprietà e vita umana non sono temi che ci dividono dal mondo degli Stati Uniti in modo profondo?
Allo stesso modo occorre chiedersi se nella nostra civiltà storico-culturale abbia senso usare, come sempre più stiamo facendo, il consenso informato. L'affermazione che oso fare è che il paziente non possa mai avere un consenso realmente informato e che per di più esso sia inutile.

La mistificazione del consenso informato

Il paziente ha, come anche ribadito giuridicamente dalla Suprema Corte, un' asimmetria di informazioni sulla sua malattia. Il paziente, anche il più acculturato non ha le conoscenze teoriche ed il necessario distacco clinico del medico curante. La condizione di sentirsi un potenziale o reale malato genera infatti una sorta di ulteriore squilibrio del rapporto in quanto alle diversità pre-esistenti aggiunge la preoccupazione per la propria condizione che può ulteriormente minare la capacità di ragionare e comprendere appieno tutta la portata della situazione clinica e delle varie possibilità diagnostico-terapeutiche che si delineano.
Vorrei dire di più, nell'instaurarsi di un vero rapporto fiduciario tra medico e paziente, il consenso informato diviene solo un mero pezzo di carta, talora dannoso. Se il paziente si fida del suo medico, se il medico ha per unico faro la salute del proprio paziente, che in lui ha riposto la fiducia, tutto il resto è una turbativa di questo rapporto.
Di più, può essere un elemento di distorsione della stessa libera scelta, se usato in un certo modo.

Consenso informato e sperimentazioni

Vorrei fare un esempio. Supponiamo di trovarci in una situazione in cui non esista in letteratura una prova di livello primario, ossia uno studio controllato prospettico, randomizzato sull'efficacia di un certo trattamento per la prevenzione di un evento molto grave, potenzialmente fatale, ma che non necessariamente si vericherà. Supponiamo che tuttavia in letteratura, pur non essendoci una prova definitiva, ci siano alcune evidenze pubblicate che supportino l'efficacia del trattamento a scopo preventivo e soprattutto che nella corrente pratica clinica, anche se non del tutto supportata da EBM, si attui quella determinata procedura. Supponiamo che la procedura sia potenzialmente rischiosa, ma che, pur senza evidenze definitive, come già detto molti medici, nella pratica clinica effettuino il trattamento.
Se uno sperimentatore decidesse di fare uno studio clinico per validare definitivamente la metodica dovrebbe convincere i pazienti, o, se del caso i loro tutori, a dare il proprio consenso a partecipare alla sperimentazione.
Ebbene, che cosa potrenbbe mai dire lo sperimenattore a questi pazienti? Dovrebbe spiegare un sacco di cose su cui egli stesso non sa molto in termini rigorosi, dovrebbe spiegare che gli esiti sono incerti, che incerti sono anche le risultanze di un eventuale diniego ad effettuare il trattamento. Se, paradossalmente lo sperimentatore volesse in qualche modo favorire un certo risultato potrebbe usare proprio il momento della concessione del consenso informato per orientare la selezione dei pazienti verso un arruolamento o meno di un certo tipo di pazienti, proprio usando l'asimmetria di rapporto e tutta la sua drammatica carica emozionale.

Consenso informato e placebo nella pratica clinica

Un aspetto particolare è quello del consenso informato e dell'uso del placebo nella comune pratica clinica. Un recente lavoro di Nitzan U. e coll. (1) pubblicato a settembre 2004 sul BMJ ha valutato la pratica di somministrare placebo tra i medici e gli infermieri. Solo ai più sprovveduti sarà apparso strano che Il 60% degli 89 medici e infermieri intervistati avesse dichiarato di aver dato ai propri pazienti un placebo e più di un terzo di averlo prescritto almeno per una volta al mese. La maggior parte dei pazienti non sapeva di prendere un placebo: il 68% degli operatori aveva detto che si trattava di un farmaco vero, il 17% non aveva detto nulla, l’11% aveva detto che si trattava di una cura non specifica, il 4% aveva detto la verità. Indipendentemente dai motivi che avevano spinto gli operatori ad utilizzare placebo è del tutto ovvio che un vero consenso informato avrebbe precluso l'impiego di questo strumento, così diffuso tra i medici. Insomma la medicina è il medico quindi il consenso informato vero è quello di dare al paziente tutte le informazioni affinchè possa esercitare una scelta consapevole sul medico cui affidarsi.
La posizione politically correct di oggi può essere riassunta in questa affermazione che funge da presentazione di un convegno tenutosi a Cesena nel 2002 sulla comunicazione medico-paziente.
E’ necessario abbandonare ogni nostalgia per l’anacronistico paternalismo medico e creare una modalità di relazione tra medico e paziente basata sulla cosiddetta alleanza terapeutica.

Il paziente da semplice destinatario delle decisioni mediche è divenuto protagonista, assieme ovviamente al suo medico, scegliendo egli stesso, in base ai propri stili di vita e convinzioni, la terapia più adatta a sè tra quelle proposte.
Il processo decisionale in medicina, oggi, deve essere frutto della stretta interazione tra competenza tecnico-scientifica, propria del medico, ed aspetti di pertinenza dell’individuo che riguardano le sue libertà personali.
I principi in causa sono quelli della libertà e dignità della persona umana e quindi dei diritti fondamentali dell’individuo.
Per questo il consenso informato non deve essere inteso come mero fatto formale, ma diviene parte integrante dell’atto medico costituendone un aspetto imprescindibile e qualitativamente significativo.


Queste affermazioni sono la quintessenza dell'apoditticità del politicamente corretto. La realtà clinica quotidiana smentisce, ogni giorno, questi meravigliosi statements. L'unica vera libertà possibile in medicina è quella di avere più informazioni possibili per scegliere e la possibilità reale di scegliere il medico. E' a mio avviso assolutamente necessario smantellare l'immenso cumulo di procedure che, quotidianamente, in nome di libertà tanto teoricamente inalienabili, quanto concretamente negate, ci plagiano fino a farci credere che esiste solo quel sistema. Ma quel sistema è proprio quello che ci avvelena la vita, che contribuisce ad imbarbarire le relazioni interpersonali, a rendere il vivere difficile, convulso, costosissimo e spesso insopportabile.

Luca Puccetti

1) Nitzan U, Lichtenberg P Questionnaire survey on use of placebo. BMJ. 2004 Sep 17