Ormai non c'e' persona (che sia medico o no) capace di fare a meno delle tecnologie che vengono messe a disposizione e che consentono di ampliare le proprie capacita' comunicative a livelli finora impensabili.
E mentre molti fanno ancora fatica a comprendere i risvolti legali legati alle mailing-list ora si affacciano altri meccanismi molto piu' invasivi e spesso in mano ai minori, come Facebook e Whatsapp.
Una rassegna, tratta da autorevoli siti legali, delle maggiori problematiche sull' argomento.
Daniele Zamperini
Whatsapp.
Questa app, usata (a quanto sembra) da centinaia di persone nel mondo contiene diversi divieti che ne inibirebbero l'uso a milioni di utenti.
Whatsapp e' vietata ai minori di 16 anni
Non dico certo nulla di sorprendente se affermo che quasi nessuno lo sa e anche chi lo sa se ne infischia.
Un recente sondaggio realizzato da Mec-Skuola-net rileva che il 70% dei ragazzi con meno di 16 anni utilizza Whatsapp quotidianamente.
Ma i termini e condizioni di utilizzo dell’app (che si chiede di appovare quando viene fatta l' installazione della app) prevedono questo divieto ma nessuno le legge e nessuno ci fa caso.
Il problema si collega poi ad altri aspetti: L’app infatti vieta l’invio di messaggi e contenuti di natura pornografica, razzista, offensiva, minacciosa, illegale e diffamatoria.
E' possibile immaginare come le violazioni commesse magari involontariamente da un minore illegalmente operante con questo mezzo possano poi ricadere sugli incauti genitori.
La app e' poi inibita agli utenti che si collegano da Paesi soggetti a embargo da parte degli Stati Uniti o che sono da questi ritenuti “simpatizzanti dei terroristi” o, ancora, che facciano parte di una delle liste “proibite” dalla Casa Bianca.
Tutti divieti contenuti nei classici termini d’uso che sono debitamente ignorati dagli utenti.
Attenzione quindi: adesso che i minori si divertono a scambiarsi foto ose' o contenuti compromettenti, chi ne risponde e' il titolare (ovviamente maggiorenne) dell' utenza. I Termini di servizio parlano chiaro: e' l’utente l’unico responsabile dei contenuti pubblicati, identificato dal numero che appare sul display del proprio telefono e del ricevente, e, dunque, l’unico chiamato a rispondere per qualsiasi violazione perpetrata o danno causato.
Non e' possibile invocare l' ignoranza delle norme, perche' vengono esplicitamente accettate all' atto dell' istallazione.
FACEBOOK: LE FOTO PRIVATE
Il Tribunale di Roma si e' espresso recentemente (n. 12076/2015) sul problema della proprieta' delle immagini pubblicate sui profili Facebook.
Anche se pubblicate in modalità pubblica le immagini rimangono di proprietà dell’autore. Chi le usa senza consenso puo' essere chiamato a risarcire in giudizio l' uso illegittimo.
Infatti il Tribunale afferma che la pubblicazione su una pagina Facebook, anche se in modalità pubblica, “non comporta la cessione integrale dei diritti fotografici” per cui puo' scattare il risarcimento del danno, patrimoniale e non.
I criteri sono meno severi in caso di foto "semplici", che si esauriscono “in una semplice riproduzione documentale di un determinato evento”, ma se invece e' presente una personale impronta dell' autore, esse devono godere di una tutela piu' ampia. Cosi' e' stato concesso il risarcimento per i genitori di un minore che aveva pubblicato un servizio fotografico su Facebook; talke servizio era stato ripreso, ad insaputa del ragazzo e senza indicazione della fonte, da un quotidiano nazionale e da alcune tv.
A proposito della liberta' di utilizzo dei contenuti pubblicati dagli utenti su Facebook con l’impostazione “pubblica” il tribunale ha specificato che la stessa riguarda “esclusivamente le informazioni” e non anche i “contenuti coperti da diritti di proprietà intellettuali degli utenti" , rispetto ai quali l’unica licenza è quella non esclusiva e trasferibile concessa a Facebook”.
Ovviamente la responsabilita' non esiste qualora sia dimostrabile un diritto di proprieta' da parte di terzi oppure esista una liberatoria al riguardo da prte del titolare del diritto.
FACEBOOK: LA DIFFAMAZIONE E' PIU' GRAVE
La Cassazione ha precisato che la diffamazione effettuata su Facebook e' "aggravata" al pari che se effettuata a mezzo stampa (Cass. Pen. I n. 24431/15)
Un cittadino era stato pubblicamente denigrato sul proprio profilo Facebook. Il cittadino ha presentato querela per diffamazione aggravata (ex 593 c.p. 3° comma) per cui la causa, trasmessa dal Giudice di Pace al Tribunale, da questi veniva trasmessa in Cassazione perche' venisse risolto il conflitto di competenza (se si trattasse, cioe', di diffamazione semplice o aggravata).
La Cassazione, richiamando precedente giurisprudenza, ha precisato che l'aggravante si concretizza «nella potenzialità, nella idoneità e nella capacità del mezzo utilizzato per la consumazione del reato a coinvolgere e raggiungere una pluralità di persone (...) con ciò cagionando un maggiore e più diffuso danno alla persona offesa».
Infatti, pur essendo la forma aggravata comunemente riferita al mezzo cartaceo, l'art. 595 c.p. riferisce di «qualsiasi altro mezzo di pubblicità» per cui la Corte ha ritenuto che la rete di amicizie di Facebook abbia «potenzialmente la capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone e, pertanto, di amplificare l'offesa in ambiti sociali allargati e concentrici.».
La causa e' stata quindi trasmessa in tribunale con l' avviso che gli utenti dei social media possono essere equiparati a dei "giornalisti".
Una condanna comporta il rischio di una reclusione da sei mesi a tre anni o della multa. Attualmente sono in corso in Parlamento dei tentativi di modificare la norma eliminando la pena carceraria ma probabilmente aumentando quella pecuniaria.
Daniele Zamperini