Lo studio SPRINT suggerisce che in soggetti ipertesi ad elevato rischio cardiovascolare un target di pressione sistolica inferiore a 120 mmHg può ridurre eventi cardiovascolari e mortalità.
Le linee guida attualmente consigliano come target, nel trattamento dell'ipertensione, valori pressori generalmente inferiori a 140/90 mmHg, anche in presenza di diabete, nefropatia o complicanze cardiovascolari; nei soggetti anziani possono essere accettabili anche valori inferiori a 150/90 [1,2].
Lo studio randomizzato e controllato denominato SPRINT (Systolic Blood Pressure Intervention Trial), sponsorizzato dal National Institute of Health americano, potrebbe portare ad un qualche cambiamento di queste raccomandazioni.
Nello studio sono stati arruolati 9361 pazienti con valori di pressione arteriosa sistolica maggiori o uguali a 130 mmHg e ad alto rischio cardiovascolare. Per essere arruolati i pazienti dovevano avere almeno uno dei seguenti fattori di rischio: malattia cardiovascolare sintomatica o asintomatica, nefropatia o velocità di filtrazione glomerulare compresa tra 20 e 59 mL/min/1.73 m2, rischio cardiovascolare a 10 anni (calcolato con il metodo di Framinghan) superiore o uguale al 15%, età superiore o uguale a 75 anni. Sono stati esclusi i pazienti diabetici e quelli con ictus.
I partecipanti sono stati randomizzati a due diversi target di pressione sistolica: inferiore a 120 mmHg e inferiore a 140 mmHg.
L'endpoint primario era composto da: infarto miocardico, sindrome coronarica acuta, ictus, insufficienza cardiaca o morte cardiovascolare.
I medici potevano prescrivere i farmaci ritenuti più idonei a raggiungere il target a cui il paziente era stato assegnato.
Ad un controllo ad un anno si vide che la pressione sistolica media era di 121,4 mmHg nel gruppo a trattamento intensivo e di 136,2 mmHg nel gruppo a trattamento standard.
Lo studio è stato interrotto anticipatamente dopo un follow up medio di poco più di 3 anni in quanto si è visto che il trattamento intensivo riduceva in modo statisticamente significativo l'endpoint primario: 5,2% versus 6,8%; HR 0,75; 95%CI 0,64-0,89. Questo era dovuto ad una riduzione, soprattutto, dello scompenso cardiaco e dei decessi da cause cardiovascolari.
Anche la mortalità totale, che però non era un endpoint primario, risultava ridotta nel gruppo trattamento intensivo: 3,3% versus 4,5%; HR 0,73; 95CI 0,60-0,90.
Nel gruppo trattamento intensivo risultarono più frequenti gli effetti avversi gravi del trattamento: ipotensione, sincope, anomalie elettrolitiche, nefropatia acuta e insufficienza renale.
Lo studio SPRINT costringerà a cambiare le raccomandazioni delle attuali linee guida sull'ipertensione?
In concreto i dati sembrano molto buoni: basta trattare per poco più di 3 anni 62-63 pazienti per evitare un evento cardiovascolare mentre per evitare un decesso occorre trattare circa 83 soggetti (ma, come s'è detto, la mortalità totale non era un endpoint primario per cui è consigliabile usare una certa prudenza nel considerare quest'ultimo risultato).
Alcune osservazioni sono, comunque, opportune.
Anzitutto lo studio ha escluso sia i pazienti diabetici (in cui già lo studio ACCORD BP aveva suggerito che non vi è un beneficio dal trattamento intensivo dell'ipertensione nei diabetici [4]) sia quelli con ictus.
Inoltre la popolazione arruolata aveva un rischio cardiovascolare medio-elevato per cui i risultati del trial non sono automaticamente trasferibili a tutti i pazienti ipertesi.
L'osservazione più importante però ci sembra quella che riguarda la metodologia adottata per misurare la pressione arteriosa: veniva usato un misuratore automatico standardizzato che, dopo 5 minuti di attesa, misurava la pressione per 3 volte e poi determinava la media dei valori ottenuti. Il tutto con medici e personale sanitario fuori dalla stanza. In base poi ai valori così ottenuti si decideva circa eventuali variazioni del trattamento in atto.
Questo è sicuramente un punto critico in quanto questa modalità di misurazione della pressione non rappresenta lo standard abituale nella pratica clinica corrente.
La pressione così misurata, probabilmente, risulta essere inferiore anche di 10 mmHg o più rispetto a quella che avrebbe determinato il medico con il metodo tradizionale.
Tutti questi caveat devono essere tenuti ben presenti quando si dovrà decidere se i valori di pressione sistolica del nostro paziente sono accettabili o richiedono una variazione della terapia farmacologica.
In conclusione: se si decide che il target di pressione sistolica del paziente debba tendere a valori prossimi o inferiori a 120 mmHg dobbiamo essere certi che si tratti di un soggetto con caratteristiche simili a quelle dei partecipanti allo SPRINT trial e dobbiamo dare un'importanza relativa ai valori riscontrati in ambulatorio, valorizzano invece quelli determinati con l'automisurazione domiciliare, meglio se effettuata tramite sistemi automatici di buona qualità.
Non va dimenticato, infatti, che un trattamento troppo intensivo e non personalizzato sulla tollerabilità del singolo paziente potrebbe potenzialmente portare ad effetti collaterali gravi, come lo SPRINT ha evidenziato.
Renato Rossi
3. The SPRINT Research Group.A randomized trial of intensive versus standard blood-pressure control. N Engl J Med: Pubblicato online il 9 novembre 2015.