Negli ultimi dieci anni sono entrati in uso numerosi nuovi farmaci oncologici.
Hanno comportato un significativo miglioramento clinico per i pazienti?
La domanda è semplice, la risposta lo è meno perchè l'argomento è molto complesso e richiede un discorso variamente articolato.
Comunque hanno cercato di dare una risposta due studi recenti.
Nel primo studio, pubblicato nel dicembre 2015 [1], sono stati valutati 54 nuovi farmaci oncologici approvati dalla FDA tra il 2008 e il 2012. Nel 67% dei casi l'approvazione da parte dell'agenzia americana era avvenuta sulla base di endpoints surrogati (per esempio la riduzione del volume della neoplasia). In pratica si tratta di 36 farmaci su 54.
Dopo circa 4,4 anni dall'approvazione per 31 dei 36 farmaci in questione non era dimostrato un miglioramento della sopravvivenza oppure non era ancora nota la loro efficacia sulla sopravvivenza stessa.
Insomma in poco più della metà dei farmaci approvati non vi erano, dopo alcuni anni dalla loro entrata in commercio, evidenze su endpoints clinicamente rilevanti.
Il secondo studio, pubblicato nel 2017 dal BMJ [2], ritorna sulla questione.
Lo studio parte dalla constatazione che lo scopo principale della chemioterapia è di prolungare la sopravvivenza e/o di migliorare la qualità della vita del paziente e cita due metanalisi secondo le quali non è detto che migliorare endpoints surrogati comporti sempre un miglioramento di questi due parametri.
Lo studio di Davis e collaboratori [2] ha, quindi, valutato 48 farmaci oncologici approvati dall'EMA (l'ente regolatorio europeo) tra il 2009 e il 2013. Questi 48 farmaci sono stati approvati per 68 indicazioni cliniche. Al momento dell'approvazione un aumento della sopravvivenza (in media da 1 a 5,8 mesi) era dimostrato per il 35% delle 68 indicazioni, mentre un miglioramento della qualità della vita lo era per il 10%.
Dopo un periodo medio di 5,4 anni un prolungamento della sopravvivenza è stato dimostrato per il 7% delle 44 rimanenti indicazioni e un miglioramento della qualità di vita per l'11%.
In definitiva un aumento della sopravvivenza e/o un miglioramento della qualità di vita è stato dimostrato per il 51% delle 68 indicazioni approvate. Inoltre il miglioramento della sopravvivenza è stato giudicato clinicamente significativo in circa la metà dei casi (48%).
Bisogna considerare, però, i singoli farmaci senza fare di tutta l'erba un fascio, come è ovvio.
Se è vero infatti che in media il miglioramento della sopravvivenza si limita ad alcuni mesi, per alcuni farmaci il migliorameno è molto maggiore.
Solo per citare alcuni esempi ricordiamo che nel cancro prostatico con l'uso dell'abiraterone si ottiene un aumento della sopravvivenza di circa 15 mesi, con l'enzalutamide di poco meno di 20 mesi.
Nel cancro mammario HER2+ con lapaninib si ottiene un aumento della sopravvienza di circa 10 mesi mentre con trastuzumab l'aumento è di circa 30 mesi, con l'associazione lapatinib/capecatebine l'aumento è mediamente di 25 mesi.
Per una panoramica completa sui vari farmaci si consiglia di consultare la figura 1 dello studio originale [2].
Detto questo è necessario fare alcune considerazioni circa il ruolo, non semplice, delle autorità regolatorie.
Alcuni criticano FDA ed EMA giudicandole troppo frettolose nell'approvare farmaci sulla base di studi con endpoints surrogati invece che di studi in cui siano dimostrati benefici sulla sopravvivenza totale e/o sulla qualità della vita [3].
In realtà gli enti regolatori assomigliano ad un vascello sballottato tra Scilla e Cariddi.
Da un parte, se rifiutano l'approvazione in attesa di studi a lungo termine con endpoint "hard", possono privare i malati di un trattamento potenzialmente utile i cui benefici saranno dimostrati solo negli anni futuri.
Dall'altra, un'approvazione veloce potrebbe sottoporre i pazienti a trattamenti inutili o potenzialmente dannosi rispetto a quelli già in uso nel caso l'esperienza post-marketing risultasse negativa.
E' quanto sottolinea un editoriale di commento [4]
Quindi che fare?
Chi scrive non ha una soluzione pronto uso da proporre. Ovviamente l'interesse del paziente dovrebbe essere la stella polare che guida le scelte di tutti.
Ma non sempre è facile operare la scelta giusta. Il bicchiere può essere visto mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno. In definitiva in circa la metà dei casi i nuovi farmaci oncologici approvati negli ultimi anni hanno comportato un miglioramento giudicato clinicamente significativo [2].
Ad alcuni potrà sembrare poco, a nostro avviso è invece un risultato importante e forse per il singolo paziente lo è ancora di più.
Sappiamo che la lotta contro il cancro è una battaglia difficile e lunga, anche un risultato non brillantissimo dovrebbe essere considerato positivamente.
Pensiamo che sia ragionevole approvare un nuovo farmaco oncologico anche sulla base di esiti surrogati. Gli studi con endpoint hard (come la sopravvivenza totale) richiedono, infatti, molto tempo, una casistica numerosa, disponibilità di grandi risorse economiche.
Per questi motivi le autorità regolatorie accettano per l'approvazione (in un campo come quello oncologico dove le patologie sono a grave rischio per la vita) anche studi con endpoint surrogati.
Anche perchè, se a distanza di tempo dall' approvazione, non dovessero risultare prove di un beneficio su sopravvivenza e/o qualità di vita e/o riduzione degli effetti avversi rispetto ai trattamenti più datati le autorità regolatorie potranno rivedere le loro decisioni.
Secondo alcuni autori endpoints surrogati si possono usare se vi è una chiara dimostrazione che essi sono correlati ad esiti clinici hard, oppure in caso di malattie rare o se non vi sono trattamenti efficaci disponibili [5].
Ma forse si tratta di indicazioni troppo limitative.
Si pensi, a titolo di esempio, ai tumori solidi che provocano dolore con azione di compressione su plessi nervosi: un farmaco che abbia dimostrato di ridurre il volume della neoplasia può esercitare una significativa azione antidolorifica. Oppure si consideri un nuovo farmaco che abbia effetti tossici meno pronunciati rispetto a quelli già disponibili o che richieda un ciclo di trattamento molto più breve.
Per questo non vi è accordo in letteratura. Per esempio uno studio suggerisce che la percentuale di risposta di un tumore solido alla terapia è un endpoint appropriato quando si tratta di valutare l'efficacia di un singolo agente antitumorale [6]. La risposta del tumore alla terapia viene definito con termine anglosassone "objective response rate (ORR)" e indica la percentuale di pazienti in cui, dopo un trattamento, il tumore si riduce di volume o scompare.
Un'ultima annotazione, che ci sembra però la più importante: si dovrà informare il paziente su quali endpoint il trattamento a cui sta per sottoporsi è stato validato.
Così la scelta finale sarà informata e consapevole.
Renato Rossi
Bibliografia
1. Kim C et al. Cancer Drugs Approved on the Basis of a Surrogate End Point and Subsequent Overall Survival. An Analysis of 5 Years of US Food and Drug Administration Approvals
JAMA Intern Med. 2015 Dec;175:1992-1994.
2. Davis C et al. Availability of evidence of benefits on overall survival and quality of life of cancer drugs approved by European Medicines Agency: retrospective cohort study of drug approvals 2009-13. BMJ 2017 Oct 4; 359:j4530
3. Light DW. Why do cancer drugs get such an easy ride?
BMJ 2015; BMJ 2015;350:h2068
4. Prasad V. Do cancer drugs improve survival or quality of life? BMJ 2017 Oct 4; 359:j4528
5. Kemp R et al.Surrogate endpoints in oncology: when are they acceptable for regulatory and clinical decisions, and are they currently overused? BMC Medicine (2017) 15:134
6. Oxnard GR et al. Response Rate as a Regulatory End Point in Single-Arm Studies of Advanced Solid Tumors. JAMA Oncol. 2016 Jun;2:772-779.