Una recente review fa il punto sulla gestione della ipertrigliceridemia e ribadisce l’importanza della valutazione del colesterolo non-HDL.
In questa prima parte si riassume la parte prognostica e diagnostica, seguirà quella terapeutica
La prevalenza dell’ ipertrigliceridemia (HTG) è intorno al 10% negli adulti, in aumento parallelamente all’obesità e al diabete tipo 2.
L'HTG severa (>10 mmol/L ovvero > 885 mg/dl) è meno comune e l’HTG molto severa ( >20 mmol/L ovvero >1770 mg/dl) ancora più rara.
Si considera normale un valore di trigliceridi (TG) fino a 150 mg/dl a digiuno; il valore post-prandiale di riferimento è più difficile da definirsi, ma normalmente nei pz normolipidemici non eccede i 400 mg/dl.
Rischio cardiovascolare
L'aterosclerosi è stata suggerita come "malattia post-prandiale" e alti livelli di TG contribuirebbero all'aterogenesi. Peraltro non tutti i TG sono aterogenici: le grandi lipoproteine ricche di TG (TRL) e i chilomicroni non possono penetrare le pareti vasali.
La review [1] evidenzia che rare forme di ipotrigliceridemia sono associate a diminuzione degli eventi cardiovascolari, offrendo un'importante evidenza del ruolo causale dei TG.
All’opposto, individui con lieve ipertrigliceridemia presentano un rischio cardiovascolare (CV) aumentato.
Nel Copenhagen General Population Study individui dai 40 ai 65 anni, senza malattie CV né diabete, ma con TG superiori a 265 mg/dl , hanno mostrato rischio simile alla popolazione ammissibile alla terapia con statine secondo le linee guida ECS/EAS del 2016.
Questo dato appare molto importante, perché l’80% degli eventi CV si verifica in pazienti non ammissibili alla terapia statinica, secondo le stesse linee guida.
Inoltre i livelli di TG sono predittivi di eventi CV anche in pazienti che hanno presentato sindromi coronariche acute e già in terapia con statine e quindi rappresentano un potenziale bersaglio in prevenzione secondaria.
Negli individui con HTG, il colesterolo-LDL (C-LDL), calcolato o anche misurato direttamente, può sottostimare il livello di colesterolo e quindi il rischio cardiovascolare, soprattutto in caso di sindrome metabolica o diabete.
I TG infatti, soprattutto in condizioni di insulino-resistenza, trasformano qualitativamente le LDL rendendole più aterogene (small dense), anche se la concentrazione plasmatica del colesterolo LDL appare relativamente ridotta.
Va pertanto preferito il calcolo del Colesterolo non-HDL (C-non- HDL), in grado di stimare i livelli di colesterolo di tutte le lipoproteine contenenti ApoB, che sarebbero il principale marker aterogeno: LDL, VLDL, VLDL remnant, chilomicroni, Lp(a).
Il C-non- HDL è facilmente ottenibile con la formula: C- non- HDL = Colesterolo totale – Colesterolo HDL.
I valori target sono 30 mg/dl superiori a quelli del C-LDL.
Molti studi epidemiologici hanno evidenziato il ruolo di questo parametro nella stratificazione prognostica.
Un recente lavoro [2] ha analizzato il rischio di malattie CV associato all'intero spettro delle concentrazioni di C-non-HDL. Sono stati utilizzati dati provenienti da 19 paesi in Europa, Australia e Nord America, includendo individui senza un rischio basale aumentato ma con esiti CV.
L'età media dei partecipanti era di 51 anni. La durata media del follow- up è stata di 35.5 anni, con un follow- up massimo di 43.6 anni.
Lo studio ha evidenziato che una diminuzione del 50% del C-non-HDL è associata a una riduzione del rischio di eventi CV oltre i 75 anni di età, e questa riduzione del rischio è tanto maggiore quanto più precoce è l'abbassamento delle concentrazioni di colesterolo.
Questo dimostra che la concentrazione di C-non-HDL è fortemente associata con un rischio a lungo termine di malattia CV su base aterosclerotica. In particolare, l’incidenza di eventi cardiovascolari al 30° anno di follow up era approssimativamente da tre a quattro volte più alto in donne e uomini appartenenti alla categoria con i livelli più alti rispetto a quelli rientranti nella categoria coi livelli più bassi.
Rischio di pancreatite
Gli autori della review segnalano che il rischio di pancreatite, al contrario di quanto ritenuto fino ad ora, non è legato solo a HTG severa, ma aumenta a concentrazioni moderatamente elevate di TG, in modo concentrazione-dipendente.
In particolare, il rischio aumenta a livelli tra 177-265 mg/dl, ma rimane basso in termini assoluti: 5.5 eventi10.000/anno, mentre è di circa il 3% per concentrazioni tra 885 e 1770 mg/dl e del 15% al di sopra dei 1770 mg/dl.
Livelli sopra 850 possono essere sufficienti per precipitare pancreatite acuta, ma in molti pazienti, e in special modo quelli che hanno pancreatite con livelli di TG bassi, sono presenti altri fattori come alcool, calcoli biliari o farmaci.
Gaia Lanforti e Giampaolo Collecchia
Segue seconda parte