Sabato ore 12.15 circa suona il telefono. E’ il figlio del sig. A. che mi chiede se posso andare a vedere cosa sta succedendo in casa dei suoi genitori ( abitano dall’altra parte della strada rispetto alla mia abitazione ) perché la badante che assiste il padre lo aveva chiamato allarmata perché secondo lei non respirava. Avevano già chiamato il 118 che non era ancora intervenuto, lui si trovava a più di 20 chilometri di distanza e non riusciva a valutare la situazione, anche perché la badante straniera era agitata ...
Il sig . A. non è mio paziente, conoscevo la moglie perché ci si incontrava in giardino e mi raccontava come ormai da 20 anni A. era affetto da Parkinson e come negli ultimi anni aveva perso completamente la sua autonomia . Purtroppo la moglie è morta circa un mese fa per un tumore all’intestino e A. è rimasto da solo con una nuova badante. Il figlio sposato con un bimbo piccolo lavora e vive in un paese lontano almeno 35 chilometri. A. negli ultimi tempi è sempre più chiuso e parlando con alcuni condomini esprime il desiderio di raggiungere la moglie al più presto.
Come faccio a dire di no a questa richiesta di aiuto? Mi cambio e vado. Sono passati almeno cinque minuti circa o forse anche qualcosa in più. La porta di casa è spalancata, la badante ( russa o polacca) è spaventata, non sa cosa fare. Mi racconta che avevano pranzato e poi mentre lavava i piatti ha sentito il sig. A che si trovava nell’altra stanza in soggiorno fare un verso, lei è corsa di là e ha visto che non respirava.
Mi avvicino intanto a A. non pensando di trovare questa situazione drammatica: non respirava, mi aveva detto il figlio, ma si sa che a volte dicono che il paziente non respira per dire che respira male. Qui non c’è respiro, non c’è davvero, sento la carotide: niente polso, non coscienza: il signor A. è li seduto sulla sedia immobile, a me sembra ormai morto.
Faccio due conti veloci: la telefonata a me, quella al 118, quella al figlio il tempo di uscire e salire le scale, saranno passati almeno 20 minuti, ormai il suo cervello non c’è più. “Cosa rianimo, lo faccio tornare come un vegetale” penso nel giro di qualche secondo “sarebbe accanimento”. Cerco di calmare la badante che chiama ancora il figlio e le dico di farlo venire perché la situazione è grave dovunque lui sia. Adesso vuole che lo mettiamo sul divano ma in due è difficile ma lei che è molto più grossa e alta di me lo prende per le braccia, io l’aiuto e lo mettiamo sul divano. Improvvisamente entra un carabiniere con una valigetta gialla (il defibrillatore) entra nella stanza con un aria da inquisitore, ci chiede chi siamo e cosa è successo. Cerco di spiegargli come sono arrivata, chi sono e gli dico che mi sembra morto. Allora ci chiede i documenti e richiede che io certifichi quello che ho detto. Contemporaneamente arrivano quelli del 118,una squadra di almeno 6 persone che chiedono ancora, io a rispondere che non c’è polso, non c’è respiro, nè coscienza ormai da più di 20 minuti, è un uomo di 75 anni che soffre di Parkinson da più di 20 anni e per me è morto. Risposta del rianimatore: “un uomo non è morto se non dopo essere stato rianimato”.
Mi guarda malissimo e iniziano a rianimarlo mettendolo sul pavimento. Il carabiniere mi chiede di andare a fare quel certificato e di portargli i documenti. La badante ancora più spaventata per il permesso di soggiorno e per le domande che le vengono fatte ( se lo aveva lasciato da solo, dove era, se era in casa) . Io invece vengo trattata come l’incompetente di turno che adesso non serviva più. Torno a casa, stilo il mio certificato in cui scrivo quello che avevo visto e costatato e ritorno Mi viene incontro il carabiniere che mi dice che il sig A è vivo, lo hanno ripreso, si è vero con difficoltà, l’hanno defibrillato, massaggiato, intubato, sento che dicono che ci sono delle coste rotte forse un pnx , non è cosciente. Il medico rianimatore mi guarda ancora con lo sguardo di chi ti dice”hai visto non è morto, adesso lo portiamo in rianimazione”. Il carabiniere mi dice di stare attenta perché bisogna vedere quello che scrivono sul verbale quelli del 118. Mi chiede anche da quanto tempo faccio il medico, la mia sensazione di incompetenza professionale in quei momenti ha raggiunto il massimo storico , forse non sono mai stato un medico. Quello che non riesco a capire è perché io ho valutato la situazione in un altro modo. A. ha avuto sicuramente un arresto o per un aritmia o per altro, chi lo sa, ma era già passato troppo tempo, 20 anni di parkinson su un cervello così alterato con quel metabolismo così fragile che se ti dimentichi una dose di un farmaco hai mille conseguenze come ne sarebbe uscito? L’avevo visto come un modo semplice e rapido di morire e di raggiungere la sua L. Forse A. non voleva più vivere in questa situazione e gli era stata data l’occasione, invece ancora una volta la morte deve essere sconfitta.
Il carabiniere, dopo che gli avevo spiegato che eravamo arrivati quasi insieme e subito dopo anche il 118, ha capito che non avevo avuto neanche il tempo di saltargli addosso come avevano fatto gli altri, io ero anche sola con la badante, e allora ha cambiato atteggiamento e ha detto che allora era tutto chiaro e che andava bene così, senza conseguenze. Ma intanto mi aveva fatto sentire la delinquente di turno colpevole di omissione di soccorso. Alla sera ho ricevuto la telefonata del figlio che mi ringraziava di esserci stata in quel momento e mi informava che il padre era ricoverato in ipotermia e sedato e che avrebbero provato a risvegliarlo il giorno dopo.
All’indomani A. è morto in rianimazione.
Forse sarebbe opportuno, per valutare meglio il senso dell' accaduto, cominciare dalla fine, e soffermarsi soprattutto sulle conclusioni della vicenda: sulla telefonata di quel figlio che ha sentito il dovere di ringraziare chi, incurante di orari, di turni, di prefestivi, in quel momento cosi' drammatico, aveva offerto la sua presenza e il suo conforto. Una telefonata che indicava chiaramente come, malgrado le possibili interpretazioni diverse, il figlio avesse ben compreso (e forse condiviso) le motivazioni assolutamente altruistiche che avevano mosso le scelte della dottoressa.
Un esame dettagliato dell' accaduto appare molto complesso, in quanto interessa le figure di piu' sanitari, per di piu' coinvolti in un caso certamente non usuale; le considerazioni possibili sullo svolgimento dei fatti sono assai complesse, e probabilmente non possono essere esaurite in un breve articolo.
E' importante inoltre riuscire a vedere l' intero quadro dall' esterno, in modo da averne un' immagine complessiva; in questo modo si puo' osservare come si sia verificato un incontro-scontro di punti di vista diversi, con modi diversi di intendere la professione, e come tutto sommato nessuno possa essere accusato di aver veramente sbagliato.
La collega, medico di famiglia, operante quindi con i comuni mezzi della professione medica, viene chiamata ad esaminare un corpo inanimato. "E' morto!" dice la badante, ma e' noto che la valutazione di un profano non ha nessun valore in quanto puo' essere facilmente sbagliata; e' proprio per questo che la morte deve essere verificata e dichiarata da un medico.
La collega visita quindi il paziente e riscontra l' assenza di coscienza, di respirazione, di battito cardiaco. Secondo i comuni canoni medici, il paziente e' deceduto; la dichiarazione della collega e' assolutamente corretta.
Interviene a questo punto il medico rianimatore. Egli parte da una visione diversa: la mancanza di segni vitali per lui non e' sempre irreversibile in quanto sa che con le tecniche e i mezzi straordinari di cui dispone si possono riattivare alcune funzioni vitali, anche se poi, esaurito il suo compito momentaneo, non rientra nei suoi interessi la verifica dell' esito ultimo della sua opera.
E, in effetti, riesce a "rianimare" per breve tempo il defunto.
Ma, ci si puo' chiedere, e' stata una vera "rianimazione" o soltanto la ripresa momentanea di qualche funzione automatica, totalmente aliena da una vera "vita"?
E c'era effettivamente la possibilita' di una ripresa di coscienza e di autonomia vitale?
In conclusione, le tecniche rianimatorie esasperate hanno avuto veramente un senso o si e' trattato solo di un inutile accanimento terapeutico?
Alcuni di questi problemi esulano dal campo strettamente medico e medico-legale, per entrare nell' ambito dell' etica.
Non c'e' dubbio, comunque, che anche il rianimatore abbia compiuto correttamente il proprio dovere cercando di rianimare il paziente, in quanto certamente non era agevole calcolare a priori le possibilita' di recupero ne' sarebbe stato corretto basarsi su criteri aprioristici troppo rigidi o, al contrario, troppo discrezionali: dubbi e problemi di coscienza sarebbero stati molto gravosi, come pure le possibili contestazioni legali.
E' vero anche, pero', che applicare sempre e comunque le tecniche di rianimazione piu' "spinte" anche quando e' presumibile un esito comunque infausto, puo' apparire come una esercitazione tecnica in corpore vili, piuttosto che un vero intervento salvifico.
In definitiva, quindi, esaminando il caso dall' esterno, si puo' affermare che ciascuno dei due sanitari ha tecnicamente ben operato, secondo i propri criteri ed i propri punti di vista, in una situazione che non lasciava tempo per molti ragionamenti teorici: il medico di famiglia ha optato, secondo i corretti criteri della sua professionalita', per un decorso indolore e "naturale"; il rianimatore (anch' egli in base alla sua peculiare specialita') per un tentativo "eroico" seppur probabilmente vano.
Cio' che appare sconcertante e' proprio la mancanza di una visione etica universale e condivisa che stabilisca i limiti di un intervento chiaramente inutile; sconcerta anche la mancanza di norme di coordinamento tra i diversi sanitari, che stabiliscano chi, in caso di intervento contemporaneo, abbia la responsabilita' di decidere quale strada intraprendere, se quella di un eroico improbabile recupero o quella di una tranquilla morte nella propria casa.
Questi problemi rappresenteranno probabilmente, per il prossimo futuro, alcune delle nuove frontiere dell' etica e della deontologia professionale.
Daniele Zamperini
Occhio Clinico, febbraio 2006