Durante i primi tre anni di trattamento con bifosfonati il monitoraggio della densità minerale ossea non è necessario e dovrebbe essere evitato in quanto può portare ad errate valutazioni circa l'efficacia della terapia
Questo studio è un'analisi secondaria dei dati del trial denominato FIT (Fracture Intervention Trial), un RCT in cui alendronato era stato paragonato al placebo in 6459 donne in post-menopausa con una bassa densità minerale ossea (BMD). La misurazione della BMD a livello dell'anca e della colonna venne effettuata al baseline e nel corso dello studio a 1, 2 e 3 anni.
L'analisi secondaria ha valutato le variazioni della BMD sia tra i vari pazienti (variazione associata al trattamento) sia intrapaziente (variazione associata alla misurazione). Si è visto che l'alendronato aumenta la BMD a livello dell'anca di 0,030g/cm2. Si è osservata una certa variazione della BMD tra i vari pazienti, ma di piccola entità rispetto alle variazioni intrapaziente.
Gli autori concludono che nei primi tre anni di trattamento con bifosfonati il monitoraggio della BMD non è necessario e dovrebbe essere evitato perchè può portare ad errate valutazioni sull'efficacia della terapia.
Fonte:
Bell KJL et a. Value of routine monitoring of bone mineral density after starting bisphosphonate treatment: secondary analysis of trial data. BMJ 2009 Jun 27;338:b2266.
Commento di Renato Rossi
Un editoriale di commento [1] suggerisce alcune importanti annotazioni che ci sembra utile riassumere.
Il motivo per cui si chiede una densitometria durante i primi anni di terapia con bifosfonati è per essere sicuri che il farmaco funzioni. Questo approccio è raccomandato da alcune linee guida, ma in realtà sembra essere fuorviante. Infatti la densitometria è gravata da un certo margine di errore e bisognerebbe supporre che la terapia con bifosfonati comporti un miglioramento della BMD nei primi anni maggiore di questo margine, cosa che non è. Una variazione significativa della BMD, superiore al potenziale margine di errore del test, può essere messa in evidenza solo dopo, almeno, 5 anni di trattamento. In altre parole, sottolinea l'editoriale, anche se quasi tutte le donne beneficiano di un guadagno della BMD grazie al trattamento, la grande variabilità del test nasconde in qualche maniera la risposta reale nel singolo individuo. Un'altra considerazione fatta propria dall'editoriale è questa: solo una piccola parte della riduzione delle fratture associata al trattamento si può spiegare con i cambiamenti della BMD: solo il 16% (per l'alendronato) e solo il 4% (per il raloxifene) della riduzione delle fratture evidenziate negli studi può essere attribuita all'aumento della BMD. Ancora: con il risedronato la riduzione delle fratture era simile sia nelle donne trattate che avevano avuto un aumento della BMD sia in quelle trattate che avevano avuto una diminuzione della BMD. Un altro paradosso è questo: nello studio MORE (veniva usato il raloxifene) le donne trattate che avevano una riduzione del 4% della BMD mostravano una diminuzione delle fratture rispetto alle donne del gruppo placebo che avevano un aumento del 4% della BMD. Questo potrebbe dipendere da un' importante variazione nella misurazione della BMD oppure da una mancanza di correlazione tra l'effetto antifratturativo dei farmaci e i cambiamenti densitometrici. L'editoriale termina affermando che i veri non responders ai trattamenti antiosteoporotici sono probabilmente rari, se mai esistono, e in molti casi si tratta di cattiva compliance.
Come si vede, l'editoriale mette sul tappeto alcune questioni interessanti e contesta le raccomandazioni delle linee guida. In effetti se il monitoraggio della BMD non è utile per verificare l'efficacia antifratturativa del trattamento, la sua esecuzione comporta da una parte lo spreco di risorse economiche e dall'altra può far correre il rischio di prendere decisioni affrettate (come per esempio il cambiamento di una terapia efficace) sulla base di dati non affidabili.
Peraltro questi concetti non sono nuovi. Già nel 2000 Cummings aveva messo in discussione la praticata del monitoraggio [2] e aveva evidenziato un curioso fenomeno definito "regressione verso la media". Secondo questo fenomeno un paziente che risponde in maniera non usuale ad una terapia probabilmente avrà una risposta tipica se il trattamento viene continuato senza cambiamenti. Per dimostrare questo fenomeno Cummings aveva valutato se le donne, che durante il primo anno di trattamento continuano a perdere densità minerale ossea, continuano a perderne se la terapia viene protratta oltre l'anno. A tal fine aveva esaminato i dati dello studio FIT e dello studio MORE ed aveva notato che le donne che durante i primi 12 mesi di terapia mostravano la maggior perdita di massa ossea erano anche quelle che avevano più probabilità di guadagnare massa ossea nei periodi successivi. Così l'83% delle donne che aveva nel primo anno una perdita di BMD di più del 4% mostrava, nel secondo anno, un aumento del 4,7%. Al contrario quelle che nel primo anno guadagnavano almeno l'8% di BMD, nel secondo anno andavano incontro ad una perdita media dell'1%.
Cosa ci porta a concludere tutto questo? Che è poco utile controllare la BMD nelle donne in trattamento per osteoporosi, perlomeno nei primi anni di terapia e, soprattutto, che può essere fuorviante sostituire il farmaco in uso sulla base di un parametro strumentale. Tra l'altro va ricordato che è incerto se soggetti realmente non responders ad una terapia antiosteoporotica possano trarre giovamento da un farmaco alternativo di seconda linea in termini clinicamente importanti come la riduzione delle fratture. Infatti una revisione sistemtica ha dimostrato che esistono buone evidenze di efficacia per vari farmaci usati nella prevenzione delle fratture osteoporotiche, ma i dati sono insufficienti per determinare l'efficacia o la sicurezza relativa di questi trattamenti per mancanza di confronti diretti [3,4].
Referenze