Non responsabile il medico di famiglia quando la malattia esula dalle sue competenze specifiche, ne’ i medici dell’ospedale se la malattia riveste caratteri di particolare difficolta’ ( Cass. n. 4587/2022)
I fatti: Un vedovo cita in giudizio, per la morte della moglie, sia il medico generico che l’ aveva in cura che il primario di pneumologia (nonche’ dell’ ospedale) contestando la tardiva diagnosi della fibrosi polmonare da cui era affetta la moglie, il non adeguato trattamento della malattia nonche’ la mancanza di un preventivo consenso.
Il giudice di primo grado accoglie le domande nella parte del mancato consenso informato, con conseguente violazione dell'autodeterminazione della paziente, e conseguente condanna dei medici al risarcimento danni dell'erede.
La Corte d'Appello poi esprime ulteriori precisazioni affermando che non era stata provata "la tesi attorea secondo cui la morte della moglie (affetta da una assai grave e veloce malattia polmonare con prognosi infausta) sarebbe stata causata da colpe mediche".
Si sottolineava che la terapia somministrata era quella prevista dallo stato dell'arte, che l'infezione riscontrata rientrava tra gli effetti collaterali inevitabili di ogni cura a cui si ricorre nei casi estremi.
In particolare poi si valutava come infondata la tesi che attribui responsabilita’ al medico di base per aver avallato le cure degli specialisti in quanto "il medico di famiglia rispetto ai medici specialisti di un determinato reparto ospedaliero, non (aveva) di norma né le competenze specialistiche, per sindacare l'operato terapeutico dei sanitari ospedalieri, né il potere di condizionare le condotte di essi sanitari, né alcuna compartecipazione alle scelte di essi, restando, sostanzialmente al pari di un congiunto del ricoverato, un mero visitatore".
La Cassazione confermava sostanzialmente le conclusioni dei giudici di merito rigettando le ipotesi di responsabilita’ né per l'ospedale (che aveva curato una malattia particolarmente difficile) né del medico curante.
La Corte conferma quindi il risarcimento solo per violazione del consenso informato, liquidato solo in euro 5000 considerato che, anche se correttamente informata sulle contrindicazioni, la donna non si sarebbe verosimilmente sottratta alle cure stante l'estrema gravità della malattia e l'assenza, all'epoca, di valide cure alternative.
Daniele Zamperini