Orientamenti giurisprudenziali sul deliberato contagio da AIDS
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Argomento: Archivio storico


Alcune recenti pronunce della Corte di Cassazione in tema di rischio di contagio da AIDS hanno ribadito quanto si affermava da piu’ parti, in base a considerazioni di diritto e a pronunce giudiziarie, finora pero’ limitate ai Giudici di Merito. (Zamperini- 2002)


 I casi giudiziari che hanno "fatto testo":
     
  • Un caso "storico" su tali fattispecie e’ quello, giudicato in primo grado dal Tribunale di Cremona che, con Sentenza del 14 Ottobre 1999, ha condannato per omicidio un marito che, affetto da AIDS, pur essendo ben consapevole del proprio stato patologico, aveva evitato di parlarne alla moglie e aveva proibito ad altre persone a conoscenza delle condizioni stesse di avvertirla della propria malattia. Per questo motivo, essendosi verificato il contagio e, successivamente, il decesso del coniuge, egli era stato prima accusato di omicidio volontario, successivamente derubricato nella fattispecie meno grave di omicidio colposo aggravato. I Giudici ritennero che il comportamento dell’ imputato fosse stato dovuto non alla volonta’ di uccidere, ma ad un basso livello di cultura e di intelligenza, per cui non si era reso conto pienamente delle potenziali conseguenza dei suoi atti. Il processo si concluse con la condanna a 14 anni di reclusione: veniva anche sottolineato dai magistrati che "il comportamento sessuale a rischio di un soggetto portatore di HIV e' fondamentalmente anche idoneo a mettere in pericolo la vita del partner". Questo procedimento si e’ recentemente concluso in Cassazione allorche’, con una sentenza pubblicata con risalto dai giornali, la Suprema Corte ha ritenuto di dover dare credito alla valutazione dei Giudici di Merito circa la mancanza di volonta’ di uccidere, ma adombrando la possibilita’ di introdurre una norma specifica che punisse il contagio di AIDS, magari riesumando con le dovute modifiche l’articolo 554 del Codice penale che sanzionava chi, con rapporti sessuali, trasmetteva ai partner la sifilide o la blenorragia.
     
  • Altro caso storico e’ quello conclusosi con Sentenza del Tribunale di Ravenna del 3 Maggio 1999: si trattava di una prostituta, malata di AIDS, e del suo protettore. La prostituta, consapevole della propria malattia, aveva intrattenuto centinaia di rapporti sessuali non protetti con inconsapevoli clienti, rimasti sconosciuti. La Difesa aveva eccepito proprio l'indeterminatezza delle vittime della prostituta chiedendo l’ assoluzione in quanto non era stato possibile identificare materialmente i clienti e verificare l'effettivo compimento del contagio. Il Tribunale di Ravenna pero' rigettava l'obiezione condannando la prostituta per il delitto di "Tentate lesioni personali gravissime". Il fatto che le vittime non fossero state individuate era indifferente ai fini dell’ individuazione del reato, non essendoci dubbio sull’ idoneita’ potenzialmente lesiva della condotta seguita. Infatti era stato accertato che la malata accettava consapevolmente di avere rapporti sessuali non protetti con i clienti, senza avvertirli del rischio che cio’ comportava. Il Tribunale stabili' che era irrilevante la probabilita' piu' o meno elevata di trasmissione della malattia mediante un singolo rapporto in quanto, una volta verificato che la via sessuale e' una di quelle attraverso le quali avviene il contagio, nulla toglie alla pericolosita' della condotta dell'imputata e alla sua idoneita' a trasmettere il virus dell'infezione. La donna venne alla fine condannata per tentate lesioni personali gravissime e non per tentato omicidio soprattutto per il fatto che non vi era stata in concreto la dimostrazione di effettivi casi di contagio realmente verificatosi ma soltanto della potenzialita' di questo.
     
  • Si e’ conclusa con sentenza n. 9541/2000 (Cass. Pen. Sez. I) la vicenda di un tossicodipendente che, sorpreso in possesso, a fini di spaccio, di dodici dosi di eroina, aveva sputato contro gli agenti di polizia sangue infetto da Aids, fuoriuscito dalle ferite che lo stesso si era procurato al momento della perquisizione, minacciando di rovinarli. Gia’ condannato nei primi due gradi di giudizio, la Cassazione ha addirittura, per la prima volta, aggravato la fattispecie di reato, affermando chiaramente che la condotta dell’ imputato, cosciente che la trasmissione del virus poteva determinare il relativo contagio, era da connotarsi appunto come tentato omicidio volontario e non come "lesioni gravi", come spesso optato dalle corti di merito. E non importa se poi la malattia non si sia manifestata: "In tema di tentato omicidio (ha stabilito la Suprema Corte) l'idoneità degli atti deve essere considerata sotto il profilo potenziale, dal punto di vista dell'attitudine causale a conseguire il risultato prestabilito, indipendentemente da ogni evento che in concreto abbia impedito la realizzazione dell'evento".
     
  • La Cassazione si e’ recentemente pronunciata (Cass. Pen., sez. III, n. 250/2001) sul caso di un fotografo che, con la scusa di procurare lavoro a giovani ragazze aspiranti attrici, le costringeva con l'inganno a subire atti sessuali, che andavano dai "toccamenti insidiosi" - effettuati con la scusa di mettere le ragazze in una posizione più "fotogenica" - alla vera e propria "congiunzione carnale". E’ da sottolineare come il Codice Penale consideri tra le aggravanti il fatto di "approfittare delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della vittima": tale aggravante e’ applicabile anche al caso attuale, in quanto il fotografo si approfittava dello stato di "soggezione psicologica" nel quale si trovavano giovani ragazze in cerca di prima occupazione. La gravita’ e’ ulteriormente aumentata, poi, se chi commette il reato è affetto da virus HIV, anche se la possibilità di contagio esiste solo in astratto. La Corte ha confermato cosi’ la pena inflitta dalla Corte d’ Appello, che aveva ritenuto sufficiente, ai fini dell' applicazione dell’ aggravante, la sola "astratta" possibilità di contagio, anche se in concreto lo stesso non si sia concretizzato, concludendo che in caso di violenza sessuale, la possibilità, sia pure remota, di trasmettere l'AIDS costituisce aggravante
Conseguenza pratiche dell’ attuale orientamento giurisprudenziale

La trasmissione sessuale dell'AIDS e' ormai ampiamente documentata, anche se l’ eventualita’ di contagio appare maggiormente legata ad una reiterazione di rapporti e sia piu’ raramente legata ad un singolo rapporto occasionale, anche se tale eventualita’ non e’ del tutto da escludersi.

La possibilita’ di contagio, seppure con una tasso di probabilita’ non determinabile, acquista un importante valore legale in quanto la malattia trasmessa e’, allo stato attuale, potenzialmente letale.

Il Codice Penale classifica tra le aggravanti del reato di lesioni personali il fatto che dal fatto derivi "una malattia certamente o probabilmente insanabile"; molte Corti di merito, percio’, in caso di condotta idonea a causare contagio, facevano riferimento a questa ipotesi di reato, meno grave. Le recenti pronunce della Cassazione fanno pero’ propendere invece per l’ ipotesi di reato piu’ grave, cioe’ per l’ omicidio o il tentato omicidio.

Mentre finora per i casi non seguiti da decesso si era quasi sempre ipotizzato il reato di lesione personale ex art. 582 C.P. con eventuali aggravanti, ora possono essere piu’ propriamente ipotizzati reati (attuati o tentati) quali l’ omicidio doloso (art.575 C.P.) eventualmente con l’ ulteriore aggravante del rapporto di contagio (art. 577 C.P.) oppure (nel caso manchi la volonta’ di uccidere ) l' omicidio colposo di cui all'art. 589 C.P., semplice o aggravato..

La condotta delittuosa viene a configurarsi ogni volta che il soggetto portatore di virus HIV metta in concreto (sia pure indeterminato) pericolo di contagio un altro soggetto non consapevole o non volontariamente esposto al rischio.

E’ stato eccepito da alcuni che la semplice sieropositivita’ (senza malattia conclamata) non possa essere considerata malattia mortale analoga all’ AIDS, ma anzi comporti scarso interessamento delle condizioni generali di salute; in tal caso l’ eventuale contagiato che diventi sieropositivo senza sviluppare AIDS conclamato non potrebbe invocare ne’ il tentativo di omicidio ne’ l’ insorgenza di malattia insanabile.

Malgrado l’ opposizione delle Associazioni di tutela dei malati, che temono una eccessiva criminalizzazione, l’ indirizzo giurisprudenziale ormai prevalente e’ invece indubbiamente concorde nel considerare la sieropositivita’ (anche nelle condizioni di patologia non conclamata) come condizione di malattia dall’ evoluzione potenzialmente letale. E tale potenzialita’ letale e’ gia’ di per se’ sufficiente, secondo diverse sentenze di merito (Tribunale di Roma, 13 Novembre 1992) confermate dalle ultime pronunce della Cassazione, a configurare le ipotesi di reato piu’ gravi.

Il Medico di Famiglia, il rischio di contagio, la privacy

Nel caso che un medico venga a conoscenza della condizione di potenziale contagiosita’ di un suo paziente, e di un comportamento, da parte di quest’ ultimo idoneo invece a trasmettere la malattia a soggetti inconsapevoli, puo’ generarsi un conflitto tra diverse norme, alcune tese a tutelare la riservatezza del soggetto, altre a tutelare la salute delle "vittime".

Infatti il medico soggiace all’ obbligo di riservatezza sui dati riguardanti la salute dei propri pazienti (c.d. "dati sensibili") in base a ben tre diverse normative che variamente si intrecciano: la normativa sul segreto professionale (art. 622 C.P.), la normativa sulla privacy (Legge 675 del 1996 e successive integrazioni e modificazioni) e codice deontologico professionale (art. 10)

Come abbiamo visto, pero’, ci si viene a trovare nella situazione di poter evitare un danno irrimediabile alla salute di una persona, provocato da un’ azione che viene inoltre a presentare caratteristiche di delitto.

Sono da favorire tutte quelle azioni che possano salvare entrambi i beni tutelati dalla legge (salute della vittima e privacy del malato) operando sull’ ottenimento di un consenso alla rivelazione da parte di quest’ ultimo. Qualora pero’ questi si opponesse, si impone un’ azione indirizzata alla tutela del bene piu’ rilevante.

Benche’ per le malattie infettive (tra le quali e' stata inserita anche l'AIDS attraverso il Decreto 28 Novembre 1986 art.3) l'art.132 del R.D. 352/1901 n. 45, disponga che "in tutti i casi di malattie infettive e diffusive il medico curante dovra' dare alle persone che assistono o avvicinano l'infermo le istruzioni necessarie per evitare il contagio", tale norma e’ stata finora disattesa in quanto ritenuta dai piu’ subordinata alle norme sul diritto alla riservatezza dei malati di AIDS.

Autorevoli Giuristi sostengono invece da tempo che esiste un dovere etico da parte del medico, in questi casi, di informare (contact tracing) il coniuge del malato di AIDS. Altri invece hanno basato la possibilita’ di deroga dal segreto in base alle esimenti previste dalla legge in caso di fatti illeciti commessi in stato di necessita’. Interverrebbe in tal caso il dettato dell’ art. 52 C.P. che stabilisce che "non e' punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessita' di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di offesa ingiusta, sempre che la difesa sia proporzionata all'offesa", mentre l'art. 54 stabilisce che "non e' punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessita' di salvare se' o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, ne altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionale all'offesa".

Lo stesso Garante Rodota’ in una intervista riportata da Arcangeli e al., Medicina Previdenziale n. 3 anno 2000 pag.14, ha ribadito che, laddove vi sia un grave pericolo per la salute di un terzo, vada superato il segreto professionale attenuandosi il potere del singolo di esercitare un controllo esclusivo sulla circolazione delle notizie che lo riguardano.

Il Codice Deontologico, all’ art.10, stabilisce che la rivelazione del segreto e' consentita, senza autorizzazione del malato, solo se imposta dalla Legge o per giusta causa.

La giusta causa deriverebbe, con pieno diritto, dai concetti esposti sopra dalla Suprema Corte. Infatti da quanto esposto sopra deriva con chiarezza che condotte potenzialmente contagianti tenute da soggetti malati di AIDS vengono a configurare fattispecie delittuose. Di conseguenza ogni condotta tesa ad evitare l’ esecuzione di un delitto e’ da considerare del tutto lecita, alla luce delle normative gia’ riportate.

Un’ espressa deroga alla riservatezza e’ poi contenuta nella legge 66 del 1996 che all'art.16 prevede che l'imputato per i delitti di cui sopra e' sottoposto, con le forme della perizia, ad accertamenti per l'individuazione di patologie sessualmente trasmissibili, qualora le modalita' del fatto possano prospettare un rischio di trasmissione delle patologie medesime.

La rivelazione del segreto deve essere, comunque, l’ ultima ratio, in quanto, prima di ricorrere a cio’, il medico dovra' tentare una valida e concreta opera di persuasione sul paziente, indicandogli le precauzioni da prendere o invitandolo a rivelare egli stesso la malattia di cui e’ portatore, sottolineando anche la responsabilita' giuridica della sua condotta.

Queste conclusioni, ovviamente, non sono limitate ai casi di AIDS ma possono essere applicate anche a condizioni morbose diverse, purche’ ad essa assimilabili, per pericolosita’ e possibilita’ diffusiva.

Daniele Zamperini (Pubblicato su "Doctor" n. 5, 2002)







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