Vita di medico: storia di Francesco
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Argomento: Opinioni extraprofessionali


Il medico vive quotidianamente e ripetutamente esperienza che per la maggior parte delle persone, fortunatamente, restano solo fantasia.
Queste esperienze tuttavia incidono profondamente sulla personalita', sulla sua umanita', sul suo modo di vedere e di sentire le persone intorno a lui. 
Questa e' la storia di Francesco, raccontata da Pina Onotri

Oggi Lucrezia è venuta a trovarmi verso fine dell'orario di studio :”Così mi fai le prescrizioni che mi servono e poi andiamo a pranzo insieme”
Lucrezia è mia paziente e mia amica,siamo cresciute nello stesso quartiere e praticamente abbiamo vissuto insieme,le nostre famiglie ci hanno adottato reciprocamente . E' la prima volta che usciamo  da quando suo padre- papà Francesco- è morto. Francesco mi presentava a tutti  suo medico personale. Passava a studio a salutarmi, mi portava il caffè, mi invitava a pranzo preoccupato:”Con il gran da fare che hai dimentichi anche di mangiare”.Spesso mi veniva a prendere alla stazione o all'aeroporto quando partivo o ritornavo.”Ma dai prendo un taxi”gli dicevo ogni volta. Ed ogni volta mi rispondeva:”Lo so che puoi prendere un taxi,ma vuoi mettere che così è tutta un'altra cosa?!”.
Francesco da piccolo ha sofferto di febbre reumatica e per questo   all'età di trent'anni ha subito un intervento di cardiochirurgia (uno dei primissimi) di triplice sostituzione valvolare. E per trent'anni è riuscito più o meno ,con gran coraggio ,a convivere con la sua malattia. Circa quattro anni fa ha cominciato a scompensarsi, a soffrire di crisi emolitiche acute che necessitavano di ripetute trasfusioni, di insufficienza renale. Di giorno la vita era quella di sempre;la notte-mi raccontava Lucrezia-una sofferenza continua vissuta al chiuso di una stanza per non preoccupare, per non disturbare.
Un giorno sono andata a trovarlo e l'ho apostrofato:”Noi due dobbiamo parlare sul serio”E da quel momento sono cominciate le peregrinazioni da un policlinico universitario ad un altro, da un ospedale ad un altro, da questo specialista a quell'altro:l'ematologo,il cardiologo, il nefrologo. Finchè siamo approdati ad un centro di cardiochirurgia d'eccellenza:gli Ospedali Riuniti di Bergamo, migliaia di trapianti all'anno,pazienti che vi convergono da tutta Italia, liste d'attesa tutt'altro che lunghe, accoglienza umana per i malati ,sistemazione in centri di accoglienza  per   i parenti che per seguirli e assisterli  cambiano città, lasciano il lavoro. Insomma un'altra sanità, sicuramente diversa da quella che ci raccontano  ogni giorno in televisione. Sei mesi di ricovero con la moglie che vive in un centro lì vicino, le figlie che tra un aereo e l'altro si avvicendano per andarlo a trovare.
Lo chiamo quasi ogni giorno finchè  mi dice”Qui tira una brutta aria,mi vogliono operare””Tranquillo-gli rispondo-arrivo”.Abbiamo parlato insieme con i medici:la sopravvivenza nel breve periodo con i problemi che ha è difficile, con l'intervento di sostituzione valvolare(le valvole non funzionano più è questo il problema) ha un 30% di possibilità di buon recupero,anche se -essendo un intervento di altissima specializzazione-,ha un'alta percentuale di mortalità intraoperatoria , nel breve e nel medio termine .La decisione è difficile,i medici sono comprensivi, cercano di chiarire ogni dubbio,ripetono mille volte le stesse cose, a Francesco, ai parenti a chiunque della famiglia chieda spiegazioni;senza mai spazientirsi,senza mai nascondere le difficoltà,senza negare mai la speranza. “Mi opero,se non lo faccio sono condannato,cosi ho almeno una speranza” Mi dice.”Trenta speranze su cento”Gli rispondo e lo abbraccio forte.”Se vuoi sarò con te in sala operatoria”.Il giorno dell'intervento, indosso la mascherina e la divisa sterile,gli do la mano mentre è sul tavolo operatorio,i colleghi mi fanno posto”Sta pure qui se così è più tranquillo”Il mio viso è l'ultima cosa che vede prima di addormentarsi per l' anestesia. In quella sala operatoria ,per lui, è all'opera un equipe di 12 persone tra medici infermieri e tecnici:c'è persino un addetto alla manutenzione di tutte  le molteplici e complesse  apparecchiature in funzione ed utilizzate per l'intervento.
Penso che è un operazione di altissima tecnologia  costosissima e che magari,in America-a meno di non avere un'assicurazione (trovandone una  disposta ad assicurare una persona molto malata)- Francesco non avrebbe potuto permettersi.
All'intervento segue la permanenza in rianimazione ed una sepsi post-operatoria.
Passa un altro mese e la situazione si complica:passata l'infezione subentra una insufficienza renale acuta.

Francesco chiede di andare a morire a casa,la famiglia cerca di convincerlo a restare aggrappandosi ancora alla speranza .I medici non ne nutrono molta,ma non interrompono la terapia Si strappa i fili le flebo, rifiuta di nutrirsi:vuole rientrare a casa.Si organizza un trasporto in ambulanza,sperando che arrivi almeno vivo .La situazione appare disperata e sembra precipitare da un momento all'altro. Invece Francesco ce la fa ad affrontare il viaggio; si arriva :le figlie mi chiedono di non abbandonarlo e non staccare le flebo che sotengono il suo cuore stanco .Penso che sia perfettamente inutile e forse accanimento terapeutico;ma come si fa a dire di no alla disperazione?Organizziamo un'assistenza domiciliare con un nefrologo, un cardiologo, un infermiere che viene ogni giorno a fare prelievi, montare le flebo,la dialisi intraperitoneale, le sacche delle trasfusioni fornite dall'ospedale. Non è semplice..
Passo quasi ogni giorno da casa sua, e mi sembra di catapultarmi la centro di una festa;è un miracolo Francesco al centro del letto, le figlie, la moglie intorno, fratelli, sorelle, cognati.,amici ,numerosissimi e lui che impartisce ordini a destra e a manca. Dopo qualche giorno  addirittura si alza ed .aiutato gira per casa tirandosi dietro tutti i fili ed i tubi. Si siede a tavola a mangiare con la famiglia.
E' morto all'improvviso,dopo 50 giorni, per rottura di ascesso intraperitoneale: nel medio termine, come ci era stato prospettato. Lucrezia mi chiede:”Ha sofferto tantissimo, l'epilogo è stato quello.Ne è valsa la pena?”Se fossi un imprenditore direi che è stato un investimento sbagliato:è costato molto in termini di impegno umano ed economico sia per la famiglia che per la sanità pubblica ed il risultato è stato nullo.
Ma se ripenso alla speranza  di guarigione che lo ha animato e che ha animato la famiglia e gli stessi medici che lo hanno assistito allora dico si, ne è valsa la pena.
Se ripenso che ha potuto continuare a vivere ancora una manciata di giorni con i suoi cari ,allora dico che ne è valsa la pena.
Qualunque sia la cifra costata  al Servizio Sanitario Nazionale a noi contribuenti.
Pina Onotri







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