PAURA, SOFFERENZA ,SPERANZA E CORAGGIO NELLA MALATTIA
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Argomento: Pensieri e opinioni professionali


Pubblichiamo un editoriale del Prof. Angelo Fiori (Direttore emerito dell' Istituto di Medicina Legale dell' UCSC), gia' pubblicato sulla Rivista Italiana di Medicina Legale, su un argomento scottante e molto vivo: l' interferenza non sempre condivisibile e non sempre giustificata dell' autorita' giudiziaria nell' attivita' squisitamente medica, con "prescrizioni di comportamento" che attribuiscono ai sanitari delle responsabilita'  francamente eccessive e immeritate.
Daniele Zamperini

 I giudici intervengono in misura crescente nell’attività medica pronunciando sentenze in cui si dettano comportamenti tecnici e deontologici ,in genere a distanza di molti anni dall’evento che causa il processo e spesso con criterio non già ex ante, bensì ex post,  cioè a seguito dell’esito infausto della prestazione medico-chirurgica.
La Corte di Cassazione – con la sentenza 7 aprile 2011  n.13746 della IV sezione penale - che invero  dichiara l’avvenuta prescrizione del reato di omicidio colposo  che si addebita a tre chirurghi – ha suscitato nuovo allarme , non solo nel  mondo medico, per quanto vi si afferma sia pure in forma indiretta, attraverso la condivisione il parere della Corte d’appello.

La stampa ha dato grande rilevanza al caso e gli interventi preoccupati di medici hanno contribuito ad esasperare un concetto che in verità la Corte non ha espresso in forma esplicita. Ecco alcuni titoli :”Vietato operare i malati terminali”; “Stop ad operazioni senza speranza anche se è il paziente a chiederle” .
 Il caso riguardava un intervento laparoscopico dapprima, poi laparotomico , per un carcinoma del pancreas in stadio avanzato con metastasi pleuriche, ovariche e carcinosi peritoneale in paziente che, conscia della prossimità della propria fine, ha tuttavia chiesto al chirurgo un intervento palliativo nella speranza di prolungare la vita almeno di qualche tempo. La morte è purtroppo sopravvenuta per emoperitoneo nelle ore successive all’intervento. Nella sentenza d’appello, condivisa nel merito e nelle motivazioni dalla Cassazione si è affermato,  tra l’altro , che  le condizioni  della paziente  la rendevano inoperabile non essendo possibile  attendersi dall'intervento  un beneficio per la salute e/o un miglioramento della qualità della vita. I chirurghi pertanto , malgrado abbiano operato su richiesta della paziente, conscia della propria situazione e quindi del tutto consenziente avrebbero agito in dispregio al codice deontologico che fa divieto di trattamenti configuranti inutile accanimento  terapeutico.

Tornano  in tal modo i Giudici  a dare prescrizioni ai medici, specie ai chirurghi, circa  le regole del loro comportamento professionale  .Qualche mese prima , la stessa sezione con sentenza del  23 settembre 2010, n. 34521  aveva affermato che esistono atti medici terapeutici ed atti medici non terapeutici . Sulla base di questo principio la Corte aveva addirittura affermato – riprendendo un filone risalente a vent’anni orsono, e che si sperava esaurito -  che il medico risponde di omicidio preterintenzionale nel caso in cui “sottoponga il paziente ad un intervento (dal quale poi consegua la morte), in mancanza di alcuna finalità terapeutica, per fini estranei alla tutela della salute del paziente come quando provochi coscientemente un'inutile mutilazione o agisca per scopi estranei alla salute del paziente (scopi scientifici o di ricerca scientifica, sperimentazione, scopi dimostrativi, didattici o addirittura esibizionistici, scopi di natura estetica ovviamente non accettati dal paziente)”. “Non è necessario (proprio perché non è richiesto il dolo specifico) che sia individuata la finalità non terapeutica perseguita dal medico (che può anche non voler perseguire uno specifico fine) essendo invece sufficiente l'estraneità dell'intervento ad ogni ipotizzabile scelta terapeutica indipendentemente dalla circostanza che l'agente ne persegua una specifica o che non ne esistano proprio. Se l'intervento non è posto in essere per una finalità terapeutica non costituisce più un atto medico e in nulla si differenzia dalla condotta di chi lede volontariamente l'integrità fisica di una persona indipendentemente dalle eventuali finalità perseguite.
La conseguenza inevitabile ,sotto il profilo giuridico ,è che “chi lede senza alcuna giustificazione, nel corpo o nella mente, la persona del paziente realizza il fatto tipico delle lesioni volontarie o addirittura del delitto di omicidio volontario se il medico agisca con atto non terapeutico del quale risulti abbia accettato le conseguenze estreme (in questo caso il reato può infatti essere punito anche a titolo di dolo eventuale).”

            Con quali criteri, nei singoli casi pratici  si possa  decidere ,  acquisito il consenso del paziente, dell’operabilità o meno, in base al rischio ma anche ai fini personali che lo stesso paziente si propone,  è uno dei problemi centrali della professione medica . quello   dell’indicazione diagnostica e terapeutica  che può avere finalità plurime e variabili , nel cui ambito possono interagire , in vario modo ,  l’esperienza e gli orientamenti legittimi del medico, ed i desideri dello stesso paziente.
Si tratta, in sostanza,  di porre , sulla bilancia delle scelte, da un lato il valore e i limiti dell’autodeterminazione del paziente – e quindi della sua eventuale richiesta di prestazione con varie finalità personali,  comprese quelle estetiche -   dall’altro la natura , l’estensione e la doverosità delle cure che possono, anzi devono poter essere anche palliative sia farmacologiche che chirurgiche .Queste  non interrompono il processo morboso, ma aiutano il paziente a sopportare le sofferenze, a combattere la paura ,  ad alimentare la speranza e quindi  ad  infondere il  coraggio di affrontare  anche prove estreme, pur  dotate di modeste probabilità  di efficacia  e gravate da elevato rischio.

Secondo la definizione dell'Organizzazione mondiale della sanità le cure palliative ("palliative care") si occupano in maniera attiva e totale dei pazienti colpiti da una malattia che non risponde più a trattamenti specifici e la cui diretta conseguenza è spesso la morte. Il controllo del dolore, di altri sintomi e degli aspetti psicologici, sociali e spirituali è di fondamentale importanza. Lo scopo delle cure palliative è il raggiungimento della miglior qualità di vita possibile per i pazienti e le loro famiglie. Alcuni interventi palliativi sono applicabili anche  precocemente nel decorso della malattia, in aggiunta al trattamento , e riguardano soprattutto i casi oncologici. Qualsiasi procedura chirurgica che non raggiunga la completa eradicazione del tumore primario e delle stazioni linfonodali è considerata palliativa ed è comunemente praticata e la sua omissione può addirittura configurare colpa professionale.

La stessa Cassazione, d’altro canto, qualche anno fa ,si era espressa in  questi termini proprio in un caso di malato terminale . Infatti nella sentenza della Cassazione  civile 18 settembre 2008 n.23846 i medici sono stati condannati per il ritardo di un mese nella diagnosi di una neoplasia in stadio avanzato: ritardo privo di qualsiasi rilevanza eziologica nel causare la morte .Malgrado ciò la Corte  ha affermato che una diagnosi formulata un mese prima avrebbe consentito al paziente una serie di vantaggi sia pure temporanei che meritavano la pena di essere perseguiti evidentemente come cure palliative data la certezza dell’esito letale . Le massime che si possono trarre sono testualmente le seguenti.
"L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, sul quale sia possibile intervenire soltanto con un intervento cd. palliativo, determinando un ritardo della possibilità di esecuzione di tale intervento, cagiona al paziente un danno alla persona per il fatto che nelle more egli non ha potuto fruire del detto intervento e, quindi, ha dovuto sopportare le conseguenze del processo morboso e particolarmente il dolore, posto che la tempestiva esecuzione dell'intervento palliativo avrebbe potuto, sia pure senza la risoluzione del processo morboso, alleviare le sue sofferenze".
"L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, quando abbia determinato la tardiva esecuzione di un intervento chirurgico che normalmente sia da praticare per evitare che l'esito definitivo del processo morboso si verifichi anzitempo prima del suo normale decorso, e risulti per effetto del ritardo, oltre alla verificazione dell'intervento in termini più ampi, anche che sia andata in conseguenza perduta dal paziente la chance di conservare durante quel decorso una migliore qualità di vita e la chance di vivere alcune settimane o alcuni mesi di più rispetto a quelli poi vissuti, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona".
"L'omissione della diagnosi di un processo morboso terminale, in quanto nega al paziente, oltre che di essere messo nelle condizioni per scegliere, se possibilità di scelta vi sia, "che fare" nell'ambito di quello che la scienza medica suggerisce per garantire la fruizione della salute residua fino all'esito infausto, anche di essere messo in condizione di programmare il suo essere persona e, quindi, in senso lato l'esplicazione delle sue attitudini psico- fisiche nel che quell'essere si esprime, in vista e fino a quell'esito, integra l'esistenza di un danno risarcibile alla persona".

Le ultime sentenze infliggono dunque all’operare medico  ulteriori colpi disorientando sempre più sia i medici che l’opinione pubblica. La rimodulazione giurisprudenziale della professione sanitaria, basata sulla libera e continuamente oscillante  interpretazione di leggi ormai datate ed a carattere generale, prive della specificità che la medicina e la chirurgia invece richiederebbero – a partire dal cosiddetto e tanto maltrattato consenso e dissenso informato - sta inevitabilmente inducendo i medici sempre più alla medicina difensiva cioè a comportamenti non dettati dalle reali necessità del caso e dai desideri dei pazienti, bensì dalla finalità di evitare la mannaia dei processi penali e civili  .Sono processi di interminabile durata, che giungono a conclusione dopo decenni i e che, comunque si concludano - spesso negativamente per il medico -  sono fonte di ambasce, umiliazioni, spese, incertezze operative ingiustificate e comunque pericolose per i pazienti più ancora che per il medico.
Purtroppo la medicina, attività dell’uomo per l’uomo e quindi soggetta ai limiti degli esseri umani, non è in grado di sottrarsi, nel suo incessante percorso, ad insuccessi, ad errori talora ingiustificati altre volte giustificati, di cui il suo cammino è disseminato e, probabilmente, sempre lo sarà. In molti casi i pazienti hanno affrontato  rischi, anche elevati,  per la speranza di guarigione o per necessità situazionali  .E’ indubbiamente certo che in molte circostanze la medicina ha progredito per il sacrificio inconsapevole di molti. E’ ragionevole, ed utile , credere che questo millenario percorso della medicina e della chirurgia possa essere sostanzialmente modificato  dall’intervento dei giudici che, con l’incremento dei processi, interviene di fatto  non solo nei casi singoli bensì addirittura tentando di ridisegnare le leges artis  , mutevoli ,nel corso del tempo,  nella loro pratica applicazione caso per caso?
Richiamare i medici alla misura ed alla prudenza ed alla diligenza è giusto e doveroso. Imporre loro dall’esterno regole  di condotta da parte di persone prive ,perché profane, delle conoscenze necessarie,- ed anche  perchè spesso male consigliate dai periti - è una pretesa assurda e pericolosa  che rende la pratica medica ancor più pericolosa di quanto già non lo sia per sua stessa natura .

La paura, la sofferenza e la speranza di guarigione, o di migliore vita od anche di una meno breve sopravvivenza infondono ai pazienti, ed ai loro congiunti il coraggio di affrontare i rischi, spesso gravi, talvolta mortali  dei trattamenti medico-chirurgici. Ed ai medici il coraggio di assumersi la responsabilità delle proprie proposte e prestazioni.
Questa è, e probabilmente sempre sarà, la medicina con la sua natura, le sue luci ed ombre, con le sue conquiste ed i suoi drammi. Non saranno certo le sentenze dei giudici che potranno mutarne l’essenza ma è certo che i medici non possono continuare ad operare in  questo clima di incertezza e di sofferenza.
 
Angelo Fiori





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