L'incertezza in medicina
Data: Argomento: Medicina Clinica
La medicina non è una scienza esatta e il medico si deve confrontare spesso con l'incertezza.
Una visione positivistica della Medicina la ritiene, ancor oggi, una scienza "quasi" esatta in cui l'operare del medico è ben definito e rispondente a regole e schemi prederminati.
Il medico, sulla base dell'anamnesi, della visita e degli accertamenti richiesti, arriva ad una diagnosi e di conseguenza imposta una terapia efficace. In questa visione ottocentesca vi è poco spazio per il dubbio e per l'errore: se il medico opera secondo i dettati della "scienza" non può che conseguirne una diagnosi corretta ed una altrettanto appropriata condotta terapeutica. Se questo non si verifica è, quasi sempre, dovuto ad una errata applicazione delle conoscenze e delle metodiche diagnostiche. In conclusione: un esito negativo è spesso causato da un colpevole che non ha "seguito" le regole. Purtroppo non è così che funziona e questo paradigma è molto lontano dalla realtà: qualsiasi medico sa che molto spesso deve confrontarsi e convivere quotidianamemnte con l'incertezza e con la possibilità di sbagliare.
Da un punto di vista descrittivo possiamo classificare l'incertezza in due grandi categorie: l'incertezza diagnostica e l'incertezza terapeutica.
L'incertezza diagnostica E' lapalissiano affermare che il paziente non porta scritta in fronte la diagnosi. E' il medico che, con una serie più o meno complessa di atti (anamnesi, esame obiettivo, esami ematochimici, accertamenti radiologici, consulenze specialistiche), deve arrivare a capire di quale/i malattia/e soffre il paziente che gli sta di fronte. Ma se in molti casi la diagnosi non rappresenta un problema, in altri vi sono difficoltà e incertezze che rendono arduo questo compito.
Pensiamo per esempio ad un ambulatorio molto affollato di un Medico di Medicina Generale in pieno inverno. Si presenta un paziente di 55 anni con dolore toracico. La mancanza di supporti diagnostici e di laboratorio, la carenza di personale infermieristico e di segreteria, l'impossibilità di poter avere in tempo reale il parere di uno specialista, la necessità di dover decidere in pochi minuti se quel paziente ha una patologia potenzialmente grave (come per esempio un infarto miocardico o un'embolia polmonare), tutto questo dovrebbe essere sufficiente a far comprendere quanto delicato sia il compito che attende il medico. Basarsi solo su anamnesi ed esame obiettivo (per quanto ben condotti) per decidere se inviare il paziente in Pronto Soccorso non sembra molto saggio in quanto sono stati ben descritti, per esempio, casi di infarto miocardico con segni e sintomi atipici.
D'altra parte non appare neppure appropriato inviare in Pronto Soccorso tutti i pazienti con dolore toracico. Ricerche effettuate in contesti di Medicina Primaria hanno evidenziato che la maggior parte dei casi di dolore toracico visti nel territorio non dipendono da cause cardiovascolari o polmonari gravi bensi sono riconducibili a patologie di tipo muscoloscheletrico, reflusso gastroesofageo, nevriti, etc. Inviare tutti i casi di dolore toracico in Pronto Soccorso provocherebbe un inutile intasamento dei servizi di secondo livello e sarebbe giustamente criticato. Se anche il medico curante avesse nel suo ambulatorio la possibilità di eseguire ed interpretare un tracciato elettrocardiografico non sarebbe comunque in grado di escludere con sicurezza una ischemica cardiaca perchè sono noti casi di infarto elettrocardiagraficamente muto o con alterazioni minime, senza contare che nelle fasi precoci le lesioni tipiche possono mancare.
Ovviamente alcuni criteri clinici possono essere di aiuto: per esempio molto alto dovrà essere il grado di sospetto in un soggetto di età media o avanzata con multipli fattori di rischio cardiovascolare o con precedenti coronarici.
Casi simili al precente sono pane quotidiano per il Medico di Medicina Generale. Si pensi, per dire, ai pazienti febbrili con cefalea importante in corso di epidemia influenzale: sarà una, seppur rara, meningite? E' noto che i classici segni di interessamento meningeo che si trovano descritti nei trattati hanno una sensibilità ed una specificità molto basse. Come decidere?
Altre volte l'incertezza diagnostica dipende dal fatto che i sintomi riferiti dal paziente sono difficili da interpretare o da inquadrare e ricondurre in un qualche quadro nosografico noto. Si tratta di condizioni viste molto frequentemente nella Medicina Generale. Talora si tratta di patologie all'inizio che esordiscono con sintomi sfumati e confusi che solo in un secondo tempo diventano più specifici e facilitano l'inquadramento diagnostico. Altre volte si tratta di pazienti che enfatizzano semplici sensazioni corporee oppure sintomi lievi e banali in cui una diagnosi vera e propria non solo non è possibile ma non è neppure necessaria perchè si risolvono da soli in pochi giorni. In questi casi, pur nell'incertezza di una diagnosi che non arriva, il medico curante può sfruttare il fattore tempo come una vera e propria terapia, magari prescrivendo qualche accertamento o qualche placebo. Non si tratta, come si potrebbe erroneamente pensare, di un venir meno al proprio compito, ma di una vera e propria strategia diagnostico/terapeutica che consente da una parte di rivalutare il paziente nel caso comparissero disturbi diversi e/o più gravi, dall'altra di rafforzare il rapporto di fiducia con il paziente stesso che, in questo modo, si sentirà compreso e "curato". Questo aspetto, che potrebbe apparire poco "scientifico" ad un primo esame, è invece essenziale in un contesto in cui l'interazione tra medico e paziente si sviluppa in maniera continua per anni se non per decenni o anche per tutta la vita.
Un certo grado di incertezza, per il medico, sarà comunque sempre presente: avrà interpretato correttamente quel sintomo? si tratta davvero di una situazione banale in cui basta avere la pazienza di aspettare qualche giorno o non avrà sottovalutato una patologia grave?
L'incertezza non può essere eliminata neppure quando si può disporre dei risultati di esami ematochimici e radiologici. Come succede per i sintomi e i segni obiettivi, anche gli esami devono essere interpretati e valutati. Nessun test ha una sensibilità ed una specificità del cento per cento. Questo significa che, per quanto sofisticati siano i test usati, vi saranno sempre dei falsi positivi (persone sane in cui il risultato del test è patologico) e falsi negativi (persone malate in cui il risultato del test è normale). Ne deriva un margine più o meno elevato di incertezza ineliminabile e di cui bisognerebbe sempre tener conto. Per finire ricordiamo quella che può essere definita l'incertezza statistica. In questi ultimi anni la medicina ha subito una trasformazione impensabile: da una scienza che si riprometteva di curare le persone malate è divenuta sempre più una pratica che ha lo scopo di individuare precocemente soggetti sani ma che sono a rischio più o meno elevato di sviluppare una determinata patologia. Il calcolo del rischio cardiovascolare futuro di un determinato soggetto è esemplificativo di questa metamorfosi. Grazie a complessi studi epidemiologici che hanno seguito intere popolazioni per decenni è oggi possibile, conoscendo alcune variabili (lo stato o meno di fumatore, il valore della pressione arteriosa, del colesterolo, l'età, il sesso, etc.) calcolare la probabilità di avere, negli anni a venire, un evento cardiovascolare. Insomma, si potrebbe quasi dire che il medico ha preso il posto del mago che, con la sfera di critallo o leggendo la mano, faceva previsioni sul nostro futuro. Ma ogni progresso ha il suo veleno nella coda. Le nostre previsioni sono solo probabilistiche, elaborate su popolazioni: possiamo dire ad un paziente che il suo rischio di avere un evento a 10 anni è del 10-15-20%, ma non sappiamo dirgli se sarà proprio lui ad avere o meno quell'evento. Anche in questo caso, quindi, la decisione di cosa fare dovrà confrontarsi con l'inevitabile incertezza. Se per esempio un soggetto ha un rischio di infarto a 10 anni del 15% e decidiamo di trattarlo saremo sempre in dubbio se effettivamente avrà tratto un beneficio dalla nostra decisione perchè potrebbe aver fatto parte di quell'85% che, anche senza trattamento, non avrebbe comunque avuto l'evento. E, al contrario, se decidiamo di non trattarlo ci sarà sempre il dubbio che lui faccia parte di quel 15% che avrà un infarto.
L'incertezza terapeutica La dimostrazione dell'efficacia di un determinato trattamento terapeutico si basa sugli studi clinici controllati e randomizzati (RCT) che forniscono le migliori evidenze o prove mentre le evidenze che derivano dagli studi osservazionali sono, in genere, ritenute meno affidabili. Tuttavia gli studi presenti in letteratura non coprono tutte le possibili patologie che il medico deve affrontare. Secondo alcune stime solo nel 30% circa dei casi, quando si deve prendere una decisione su un trattamento piuttosto che un altro, il medico si può basare su prove attendibili. Negli altri casi occorre agire nell'incertezza.
L'incertezza può dipendere dal fatto che per quella specifica situazione non ci sono studi disponibili oppure sono stati effettuati solo studi che non rispondono agli standard ottimali. Altre volte gli studi ci sono ma i risultati sono di interpretazione non univoca e dividono gli stessi esperti. La Evidence Based Medicine aveva portato molti a ritenere che finalmente la pratica medica avrebbe avuto fondamenta forti e incontestabili, ma oggi ci siamo sempre più resi conto che studi, metanalisi e revisioni sistematiche perfette non esistono e sui risultati degli studi non trovano un accordo neppure i vari cultori della materia. Per non parlare delle molte linee guida che sono state proposte e che, non raramente, forniscono raccomandazioni diverse. Nè va sottovalutato il fatto che un conto sono i contesti sperimentali in cui gli studi vengono effettuati e un conto è il mondo reale dove il comportamento dei pazienti e dei medici e il contesto in cui operano rendono difficile il trasferimento dei risultati nella pratica di tutti i giorni. Non si deve dimenticare, ancora, che, data la mole di lavori scientifici che ogni anno vengono alla luce, non è pensabile nè umanamente possibile che il medico sia a conoscenza di tutto quello che viene pubblicato. Sarebbe necessario avere a disposizione molto tempo per poter ritrovare e valutare criticamente la letteratura. Ma spesso una decisione clinica deve essere presa nel giro di pochi minuti, senza poter accedere alle banche dati e alle linee guida e senza poter disporre in tempo reale del parere di esperti. Da quanto fin qui brevemente illustrato ci sembra risulti chiaro che ogni decisione medica sconta un certo margine di incertezza. Sarebbe auspicabile che questo portasse ad una franca discussione tra medici, pazienti, e parti sociali, onde non alimentare illusioni irrealistiche.
Renato Rossi
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