La Comunicazione Medico-Paziente: un importante momento terapeutico
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Argomento: Pensieri e opinioni professionali


Essere medico non significa soltanto somministrare farmaci o maneggiare un bisturi: essere medico significa anche condividere una relazione emotiva con una persona malata. La comunicazione (esplicita o implicita) che si instaura tra medico e paziente assume una importanza spesso inattesa sul futuro del malato: sulle scelte terapeutiche, sulla gestione della malattia, sull' accettazione della stessa. Ma comunicare in modo utile non e' sempre facile, ne' viene sempre naturale: e' importante conoscere almento le basi delle tecniche comunicative piu' utili

Un tempo, la relazione medico-paziente era definita come “una storia di silenzio”, nella  convinzione che “un buon paziente segue le direttive del medico senza fare obiezioni e  senza porre domande”.

Oggi assistiamo ad un cambiamento radicale: dal modello paternalistico che improntava la relazione medico-paziente si sta andando verso una relazione paritaria.
Al termine “paziente” si è sostituito il termine “cliente” o addirittura “esigente”, poiché il pz. Sottopone richieste precise e si aspetta  risposte chiare e risultati certi.
In realtà, ogni domanda di cura racchiude non soltanto una semplice richiesta di aiuto tecnico, ma anche un’esigenza di relazione. Ignorare questa dimensione, significherebbe ridurre la medicina ad applicazione di una tecnica, trasformando il rapporto medico-paziente in una prestazione di servizi, senza tener conto che esso è in primo luogo attenzione ad una persona. Vi è una differenza sostanziale tra scienza medica e Medicina: la prima considera l’uomo come oggetto d’indagine , che diventa “Medicina” solo quando si rivolge all’uomo non più come oggetto, ma come soggetto. Una buona qualità nella comunicazione può avere effetti positivi a vari livelli: dall’aderenza al trattamento proposto, al miglioramento dei sintomi, allo stato emotivo.
Gli ostacoli maggiori alla comunicazione medico-paziente emergono quando si dimostra di non  saper ascoltare il paziente: l’insoddisfazione del pz. Per la cattiva comunicazione, ha un peso superiore all’insoddisfazione per le competenze tecniche.
Possono ostacolare la comunicazione:
1)  La fretta:  determina una riduzione del tempo dedicato  alla  relazione. Il colloquio diventa essenziale ed il pz. Lo interpreta come uno scarso interesse nei suoi confronti
2)  La distrazione: la sensazione che il medico non stia  ascoltando
3) Il linguaggio: l’uso di  un linguaggio tecnico contraddice lo stesso concetto di comunicazione.
4) L’interruzione: l’abitudine ad interrompere il paz. fa trarre conclusioni spesso sbagliate.
5) L’esclusione: l’esclusione del paz.dalla conversazione tra 2 medici (sul suo caso), condotta in termini specialistici, a lui scarsamente o per nulla compresibili.
La malattia provoca, nel malato, una crisi di comunicazione,
1)  con sé, 
2) con gli altri
3) col  mondo.
Eppure essere malati vuol dire aver bisogno degli altri, dei loro servizi, delle loro parole oltre ad avere il malato un bisogno profondo di esprimersi.
Entrare  in comunicazione con l’altro  significa entrare in rapporto con un altro sistema chiamato Persona, che  presenta alcune caratteristiche complesse e profonde che possiamo racchiudere  in 4  fondamentali “variabili“:
1) BIOLOGICHE (età-sesso-razza)
2) SOCIOLOGICHE (cultura-famiglia-stile di vita)
3) PSICOLOGICHE (atteggiamento-immagine di sé-comunicazione-stati d’animo-conoscenza-memoria)
4) SPIRITUALI (credenze-religione-valori-filosofia di vita)
Da questo  schema  emerge la complessità della comunicazione, cioè quello scambio d’informazioni, emozioni, sentimenti tra almeno due persone, che avviene tramite i cinque sensi . E’ solo però quando si comunica se stessi e non ci si nasconde dietro un ruolo, che si realizza una vera comunicazione di vita.
La solitudine peggiore  sta nel non poter comunicare se stessi a qualcuno. Questo bisogno di scambio di pensieri e di stati affettivi è insito nell’uomo; nasce dalla consapevolezza dei propri limiti e dal bisogno di cercare negli altri il completamento di se stessi.
 Il processo comunicativo ha inizio quando una persona ne incontra un’altra; non ha importanza  se la comunicazione è verbale o non verbale; ambedue le modalità possono costituire l’occasione di un breve incontro o l’inizio di un rapporto di comunicazione nel tempo.
Emerge così una duplice tipologia di comunicazione:
1) VERBALE
2) NON VERBALE
Infatti,oltre a comunicare un messaggio con parole, si può comunicare  il “non detto”, attraverso altre modalità.
Le comunicazioni non verbali sono per lo più involontarie e quindi  meno controllabili rispetto a quelle verbali.
Possiamo così distinguere i seguenti mezzi di comunicazione:
1)LA PAROLA: quale costante bisogno dell’uomo di capire e farsi capire, di uscire da sé e andare verso l’altro.
2) IL PARALINGUAGGIO: si parla lentamente, in modo incerto, irregolare, si modula la voce ecc. si urta contro i propri limiti.
3)IL CORPO: tensione muscolare, respirazione accelerata
4)IL VOLTO: in certe espressioni del volto affiora l’inconscio, la parte più profonda di sé.
5)LA POSIZIONE: in piedi, accanto, protesi, distanti.
6)L’UDITO: inteso come attenzione ai suoni non verbali, quali il sospiro, il silenzio,le pause ecc.
7) L’ATTEGGIAMENTO: fumare, mordersi le unghie, muoversi in continuazione.
8)I GESTI: si comunica anche con la gestualità in particolare con chi ha deficit neurosensoriali o handicap.
9)IL TATTO: il contatto fisico fra due persone può essere strumentale, oppure spontaneo ed affettivo (dalla mano sulla spalla per incoraggiare, alla stretta di mano, all’abbraccio d’accoglienza  e condivisione di un momento difficile).
Il processo di comunicazione tuttavia  non sempre ottiene il risultato sperato.
Occorre  innanzitutto  tener presente l’oggetto dell’ascolto: il dolore.
L’atteggiamento fondamentale , nei confronti di una persona che soffre, non consiste nell’abbondanza di parole e consigli, ma nella disponibilità all’ascolto.
Al silenzio interiore, necessario all’ascolto, deve unirsi anche un linguaggio essenziale
Di condivisione che dovrebbe caratterizzare anche il rapporto terapeutico.
Una medicina attenta alla persona è anche una medicina del “curante” oltre che del “curato”!
Il grado d’informazione del paz. circa la sua malattia condiziona notevolmente la comunicazione. Il malato si rende conto dell’eventuale elusione delle risposte alle sue specifiche domande. Eppure il processo terapeutico, per quanto possibile, dovrebbe avere il malato come figura centrale e collaboratore  principale delle modalità terapeutiche. Invece la tendenza a celare certe diagnosi, con l’aiuto dei familiari, si trasforma in una vera e propria “congiura del silenzio”, che costringe il malato a recitare la commedia della guarigione fino all’ultimo, senza la possibilità di esprimere le proprie ansie e paure. Non c’è niente di peggio delle briciole d’informazione, date con gesti, parole contradditorie, occhiate tra parenti, amici ed operatori sanitari. In ospedale come in casa, parole e bisbigli attraversano le pareti della camera; l’usanza del silenzio è spesso più crudele della  verità! Inoltre spesso la sensazione che il paziente non si accorga di nulla, è più una sensazione desiderata per coloro che lo circondano, che un evento reale. Spesso non  ascoltiamo ciò che ci viene detto, presumendo già di saperlo; udiamo solo ciò che vogliamo ed ascoltiamo solo ciò che coincide coi nostri obiettivi, cessando di ascoltare non appena abbiamo “classificato” l’interlocutore. Tentazioni queste che sono anche del malato, il cui comportamento è peraltro condizionato dal tipo di  risposta che riceve a fronte della sua richiesta d’aiuto.
Pertanto la tipologia delle sue risposte  potrà essere la seguente:
1) RISPOSTA VALUTATIVA: tende ad indicare all’interlocutare ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare.
2) RISPOSTA INTERPRETATIVA: tende a dare una propria spiegazione per aiutare la persona a comprendere ciò che sta vivendo.
3)RISPOSTA DI SUPPORTO: vuole offrire un incoraggiamento, una consolazione all’interlocutore per ridurre la sua ansia.
4)RISPOSTA INVESTIGATIVA: tende a raccogliere ulteriori informazioni per approfondire ulteriormente il problema.
5) RISPOSTA DI SOLUZIONE IMMEDIATA DEL PROBLEMA: vuole offrire consigli e suggerimenti alternativi per risolvere velocemente il problema.
6) RISPOSTA EMPATICA: è il risultato di un processo d’ascolto attivo, che presuppone la capacità di mettersi dalla parte del malato e della  malattia.
Fra tutte, solo la risposta empatica  permette a chi soffre di sentire intorno a sé una comprensione ed una risposta  coerenti al suo bisogno fondamentale di parlare di sé.
D’altra parte, accompagnare  qualcuno non vuol dire precederlo, indicargli la strada, ma piuttosto camminare al suo fianco, stargli accanto, lasciandolo libero di scegliere la sua strada ed il ritmo del suo passo.
Al termine di questo percorso il malato da “patiens”  potrà così divenire “agens”, cioè persona che pur malata sarà sempre capace di dare ed il medico avrà da un lato elaborato i suoi limiti umani, dall’altro i limiti della professione, sfuggendo così alla subdola convinzione che esista la possibilità di una “onnipotenza terapeutica”  o di un totale  distacco  dalla sofferenza,  come fosse esclusiva sofferenza altrui!
Quali allora le possibili strategie da adottare:
1) PERSONALIZZARE L’ASSISTENZA:
Personalizzare l’assistenza vuol dire considerare unico ogni paz. e dargliene la sensazione. Ma come fare quando ogni giorno si vedono decine di paz.? Un modo sta nel considerare la persona che si ha di fronte come fosse l’unica della giornata (senza pensare  al paz. prima né a quello dopo).
2)CONSIDERAZIONE: considerare il paz. come noi stessi. Gandhi diceva: “Tu ed io siamo una cosa sola, non posso farti del male senza ferirmi”. E’ un attegiamento rivoluzionario rispetto a quello di porsi di fronte al paz. come un datore di servizi.
Dunque nessuna preferenza né distinzione (tra patologie più o meno interessanti, persone collaboranti o resistenti), ma tutti i paz. hanno lo stesso diritto alla mia attenzione.
Il  medico non può aspettarsi che sia il paz. a comportarsi in modo “ideale”; sta a noi prendere l’iniziativa che faccia  avvertire il nostro  interessamento e desiderio di essergli d’aiuto. Questo atteggiamento facilita il rapporto di fiducia facendo scaturire una reciprocità ed una conseguente alleanza terapeutica.
Premessa a tutto questo è la capacità d’ascolto, che va ben oltre il semplice udire.
Infatti se l’UDIRE si esaurisce a livello della funzione uditiva e si attua  anche senza la volontà della persona, ASCOLTARE significa invece percepire non solo le parole, ma anche i pensieri, lo stato  d’animo, il significato personale e profondo del messaggio trasmesso. Per ASCOLTARE, occorre staccarsi dai propri interessi, dai propri schemi  mentali, per introdursi gradualmente e con rispetto nel mondo dell’altro. Perché cresca una buona capacità d’ascolto è  necessario un atteggiamento spesso difficile da mettere in pratica, pur  rappresentando una condizione indipensabile per l’ascolto: si tratta della sospensione del giudizio, che significa astenersi da valutazioni di approvazione o disapprovazione, da  affrettate conclusioni.
L’ascolto richiede  di tacere; soprattutto di far tacere la propria comunicazione intrapsichica, cioè il nostro vissuto,che colui che parla ridesta in noi.
Oltre al silenzio di chi ascolta, deve esserci spazio anche per il silenzio dell’altro, poiché a volte, col suo silenzio vuole dirci che ha bisogno di riflettere o che si sente bloccato per qualcosa  che ha colto in noi o nell’ambiente, oppure vuole semplicemente il nostro aiuto a parlare (ad esempio ponendo qualche domanda).
 
                   
Essere al servizio del malato, vuol dire prendersi carico di una  persona, interessarsi a lei, comunicare, ascoltare, comprendere. La persona malata si attende da quelli che lo curano non soltanto un farmaco, un atto terapeutico, la salute, ma piuttosto un’assistenza che sia destinata a lei come Persona. Una relazione d’aiuto deve pertanto prevedere i seguenti interventi:
1) aiutare la persona  a sviluppare una relazione  di fiducia; il malato non può riporre la sua fiducia nella tecnica e nella medicina, ma nelle persone che lo curano.
2) aiutare la persona a mantenere il controllo della sua vita.
3) aiutare la persona a conservare la stima di sé.
Sono questi gli interventi necessari affinchè la persona, anche quando il ritorno al benessere fisico si fa sempre più incerto, non cada nella disperazione, lasciandosi andare al proprio destino.
Occorre superare l’idea che ci sia un universo di “sani” che si occupa di un universo di “malati”.
In un recente romanzo italiano, dal titolo “Cosa sognano i pesci rossi”(ove i pesci rossi sono i pazienti chiusi negli ambienti vitrei di un reparto di Terapia Intensiva), l’autore (Direttore di un Reparto di Anestesia e Terapia Intensiva) descrive la figura di un medico: “….chirurgo di discrete capacità tecniche, ancora in fase di crescita professionale; uno di quei pochi medici che se gli venisse posta la domanda classica:-  perché hai studiato medicina?- potrebbe sinceramente rispondere: Perché voglio guarire la gente.” Gli piace la gente, gli piace la vita e la gente è vita. Gli piace ascoltare la gente ed è sempre disponibile per tutti. Ogni malato che non guarisce non è una sconfitta personale, è una sconfitta della vita e non è certo un asceta o un santo e nemmeno un  missionario. Gli piace curare le persone….sembra quasi incredibile!
Maria Teresa Francavilla (Modena)





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