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PPI e insufficienza renale cronica
Pubblicato da dzamperini in data 30/04/2016 00:00
Medicina Clinica
Gli inibitori di pompa protnica (PPI) sono stati e sono tra i farmaci più prescritti negli USA per decenni. La qual cosa è dovuta a due usi comuni dei PPI: il trattamento della dispepsia e la prevenzione delle emorragie digestive in pazienti che assumono terapia antiaggregante piastrinica, in aggiunta al fatto che i PPI hanno pochi effetti collaterali. Tuttavia, l’evidenza crescente dimostra che i PPI sono, invece, associati ad un gran numero di eventi avversi e sono iperprescritti. Questo studio aggiunge alla lista dei possibili danni dei PPI l’insufficienza renale cronica (IRC).


Partendo dal presupposto che si sa poco circa l’associazione tra PPI e IRC, gli autori di questo studio osservazionale di coorte basato-su-popolazione hanno voluto quantificare l’associazione tra uso di PPI e incidenza di IRC.
In totale, 10.482 partecipanti nello studio Atherosclerosis Risk in Communities con un tasso stimato di filtrazione glomerulare di almeno 60 mL/min/1.73 m2 sono stati seguiti dalla visita iniziale di base tra l’1 Febbraio 1996, e il 30 Gennaio 1999, fino al 31 Dicembre 2011. I dati sono stati analizzati tra Maggio e Ottobre 2015. I risultati sono stati replicati in una coorte di 248.751 pazienti con un tasso stimato di filtrazione glomerulare di almeno 60 mL/min/1.73 m2 derivata dal Geisinger Health System.

Risultati:

Tra 10.482 partecipanti nello studio Atherosclerosis Risk in Communities, l’età media era di 63.0 (5.6) anni, ed il 43.9% erano maschi. Rispetto ai non-utilizzatori, i consumatori di PPI erano più spesso di razza bianca, obesi ed assumevano farmaci antipertensivi. L’uso di PPI era associato ad IRC nell’analisi non aggiustata (hazard ratio [HR], 1.45; 95% IC, 1.11-1.90); nell’analisi aggiustata per fattori demografici, socio-economici e per variabili cliniche (HR, 1.50; 95% IC, 1.14-1.96); e nell’analisi con l’uso continuativo di PPI come variabile nel tempo (HR aggiustata, 1.35; 95% IC, 1.17-1.55). L’associazione persisteva quando i consumatori di PPI venivano paragonati direttamente ai consumatori di antagonisti dei recettori istaminici H2 (HR aggiustata, 1.39; 95% IC, 1.01-1.91) e con i non-utilizzatori (HR, 1.76; 95% IC, 1.13-2.74). Nella coorte replicata del Geisinger Health System, l’uso di PPI era associato ad IRC in tutte le analisi, compreso un disegno di nuovi utilizzatori variabile nel tempo (HR aggiustata, 1.24; 95% IC, 1.20-1.28). L’assunzione di PPI bis in die (HR aggiustata, 1.46; 95% IC, 1.28-1.67) era associata ad un rischio più alto rispetto all’assunzione di una volta al dì (HR aggiustata, 1.15; 95% IC, 1.09-1.21).

Gli autori concludono che l’uso di PPI è associato ad un rischio più elevato di incidenza di IRC. Gli autori, inoltre, suggeriscono che l’ampio uso di PPI potrebbe essere la causa del fatto che la prevalenza di IRC è aumentata più velocemente di quanto ci si sarebbe aspettato dal trend di noti fattori di rischio di IRC, come il diabete mellito e l'ipertensione. Sono necessarie, sostengono, ulteriori ricerche per valutare se la limitazione d’uso dei PPI potrebbe ridurre l’incidenza di IRC.

Fonte:

Proton Pump Inhibitor Use and the Risk of Chronic Kidney Disease. Benjamin Lazarus e coll. JAMA Intern Med. 2016;176(2):238-246

Commento di Patrizia Iaccarino

In un editoriale di accompagnamento, Adam Jacob e Deborah Grady dell’Università della California, San Francisco sostengono che occorre che i medici raccomandino farmaci alternativi, quali gli antagonisti dei recettori istaminici H2 o modifiche degli stili di vita, prima di prescrivere PPI. Scrivono: “Un gran numero di pazienti assumono PPI senza chiari motivi — spesso sintomi passati di dispepsia o bruciore di stomaco che si sono già risolti. In questi pazienti, i PPI dovrebbero essere sospesi per determinare la necessità di un trattamento sintomatico”. I dottori Schoenfeld e Grady hanno anche rivisto l’evidenza riguardante i PPI per quanto concerne la nefrite interstiziale acuta, la ipomagnesiemia, l’infezione da Clostridium difficile, la polmonite acquisita in comunità e le fratture osteoporotiche. Essi notano che la maggior parte di questi studi, così come il presente articolo di Lazarus e coll., è fatta da studi osservazionali piuttosto che da trial, ma suggeriscono che gli eventi avversi sono stati documentati da studi osservazionali di alta qualità che sono, con molta probabilità, causali.
Non si può non convenire. La raccomandazione che ne deriva, per il medico pratico, è quella di limitare l’uso di tali farmaci ai casi veramente necessari, nei quali il beneficio possa realmente superare il rischio. Spesso, senza porre attenzione agli effetti avversi, si genera la patologia da farmaco, che finisce per divenire più grave del male iniziale che si cerca di curare.

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