Alcuni studi hanno valutato se i betabloccanti sono ancora utili nei pazienti con infarto miocardico acuto.
Per decenni i betabloccanti sono stati presi in considerazione una terapia di prima linea nei pazienti con infarto miocardico. Tuttavia questa raccomandazione si basa soprattutto su studi effettuati negli anni 80 del secolo scorso quando la terapia dell'infarto miocardico era molto diversa rispetto a quella di oggi.
Alcuni autori [1], partendo da queste considerazioni, hanno osservato che molti degli studi che hanno dimostrato un beneficio dei betabloccanti sono stati effettuati in pazienti con necrosi estesa e in un'epoca in cui non erano disponibili i moderni marcatori di infarto e il trattamento era molto diverso. Oggi molti pazienti hanno un infarto miocardico di minori dimensioni e con frazione di eiezione conservata, sono sottoposti a coronarografia precoce, riperfusione (PCI o bypass) e assumono subito antiaggreganti, statine ad alto dosaggio, aceinibitori o sartani. La riperfusione precoce limita molto il danno miocardico e questo porta a ipotizzare che il betablocco diventi meno utile che in passato. Gli autori si sono quindi chiesti se i benefici dei betabloccanti nei pazienti con infarto miocardico si realizzano anche oggi. Per stabilizzarlo hanno effettuato una metanalisi di 60 studi per un totale di 102.003 pazienti arruolati.
Si è evidenziato che negli studi effettuati nell'era pre-riperfusione i betabloccanti riducevano la mortalità del 14% (IC95% da 6% a 21%), la mortalità cardiovascolare del 13%, l'infarto miocardico del 22% e l'angina del 22%.Negli studi eseguiti nell'era della riperfusione i betabloccanti non riducevano la mortalità totale. Riducevano – ma solo nel breve termine (30 giorni) - il rischio di re-infarto del 28% (IC95% da 17% a 38%, NNT = 209) e di angina del 20% (IC95% da 2% a 35%, NNT = 26), tuttavia erano anche associati ad un aumento del rischio di scompenso cardiaco del 10% (NNT = 79) e di shock cardiogeno del 29% (NNT = 90). Gli autori hanno concluso che le linee guida dovrebbero riconsiderare la forza della raccomandazione di usare i betabloccanti nel post-infarto.
I risultati di questa metanalisi sono stati sostanzialmente confermati da una revisione sistematica successiva [2]. Del tutto recentemente lo studio REDUCE-AMI [3] ha arruolato 5020 pazienti con infarto miocardico acuto e frazione di eiezione >/= 50%, randomizzandoli poi a betabloccante (bisoprololo o metaprololo) oppure a non betabloccante. Nel braccio controllo non vi era quindi il placebo, semplicemente non veniva somministrato il betabloccante. Il seguito è stato in media di circa 3,5 anni. L'endpoint primario era formato da morte da tutte le cause e da reinfarto.
Non si è evidenziata una differenza statisticamente significativa per l'endpoint primario tra i due gruppi: 7,9% nel gruppo trattato con betabloccante e 8,3% nel gruppo non trattato con betabloccante. Non vi erano differenze neppure per gli endpoint secondari (morte da tutte le cause, morti metaboliche, infarto miocardico, ricovero per fibrillazione atriale o per scompenso cardiaco). Non differivano tra i due gruppi e altri risultati: ricoveri per bradicardia, blocco AV di II° o III° grado, ipotensione, sincope, impianto di pace-maker, ricoveri per asma, BPCO o ictus.
Che terribile? Nello studio REDUCE-AMI quasi tutti i pazienti venivano sottoposti ad angioplastica con posizionamento di stent, assumevano due antiaggreganti, una statina ad alto dosaggio, un aceinibitore o un sartano. Si tratta di terapie che erano sconosciute negli anni 80 del secolo scorso. Queste terapie hanno ridotto sia l'estensione della zona necrotica sia le complicanze dell'infarto come le aritmie minacciose. Probabilmente è per questo che i betabloccanti non si sono dimostrati utili per ridurre né endpoint primario né quelli secondari. Anche se lo studio REDUCE-AMI era in aperto e non prevedeva il placebo nel braccio controllo è improbabile che questo abbia portato a distorsione dei risultati in quanto l'endpoint primario era formato da eventi oggettivi (decesso o re-infarto).
La conclusione pratica è che la somministrazione di un betabloccante nel paziente con infarto miocardico e frazione di eiezione conservata aggiunge poco alla terapia attuale. Questi risultati sono però validi solo nel caso di frazione di eiezione conservata. Altri studi sono in corso è chiariranno ancor più la questione.
Renato Rossi
Bibliografia
1. Bangalore S, Makani H, Radford M, Thakur K, Toklu B, Katz SD, DiNicolantonio JJ, Devereaux PJ, Alexander KP, Wetterslev J, Messerli FH. Risultati clinici con β-bloccanti per infarto miocardico: una meta-analisi di studi randomizzati. Am J Med. 2014 ottobre;127(10):939-53. doi: 10.1016/j.amjmed.2014.05.032. Epub 2014 giugno 11. PMID: 24927909.
2. Hong J, Barry AR. Terapia betabloccante a lungo termine dopo infarto miocardico nell'era della riperfusione: una revisione sistematica. Farmacoterapia. 2018 maggio;38(5):546-554. doi: 10.1002/phar.2110. Epub 2018 maggio 7. PMID: 29601115.
1. Yndigegn T, Lindahl B, Mars K, Alfredsson J, Benatar J, Brandin L, Erlinge D, Hallen O, Held C, Hjalmarsson P, Johansson P, Karlström P, Kellerth T, Marandi T, Ravn-Fischer A, Sundström J, Östlund O, Hofmann R, Jernberg T; Investigatori REDUCE-AMI. Beta-bloccanti dopo infarto miocardico e frazione di eiezione preservata. N inglese J Med. 7 aprile 2024. doi: 10.1056/NEJMoa2401479. Epub prima della stampa. PMID: 38587241.
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