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La decisione clinica del singolo paziente
Pubblicato da dzamperini in data 17/07/2015 00:00
Medicina Clinica La decisione clinica nel singolo paziente: dal rapporto rischio-beneficio al bilancio danno-benefici 
 Una recente review della rivista Prescrire affronta la tematica del “rapporto rischio/beneficio”, sia sul piano concettuale che operativo.

Ogni decisione nella cura di un paziente deve tenere conto dei possibili vantaggi e degli inevitabili rischi. Il termine rischio beneficio secondo la review non è però il più accurato, infatti mentre un beneficio è implicitamente ritenuto reale e provato, un rischio è percepito come potenziale e ipotetico. Tale differenza semantica crea dunque l’impressione che qualunque intervento sia inevitabilmente di beneficio per tutti i pazienti, pur con vari gradi, mentre i relativi inconvenienti possano occorrere solo occasionalmente. Viene dunque ritenuta più appropriata l’espressione “danno-beneficio”.
Il riferimento principale di ogni decisione clinica è la valutazione dell’efficacia di un intervento in una popolazione, idealmente attraverso prove robuste, suffragate da diversi trial ben condotti, nei quali vengano considerati end point clinici, calibrati in funzione della storia clinica della condizione esaminata. Gli autori peraltro sottolineano che, pur considerando solo end point “hard”, questi non sono sempre rilevanti per tutti i pazienti, che spesso hanno esigenze specifiche, non solo sanitarie ma anche famigliari, professionali, economiche o sociali.
Di un intervento si deve valutare la rilevanza clinica in generale, ad esempio l’aumento della sopravvivenza, ma anche la rilevanza per il singolo paziente. Viene fatto l’esempio dell’aspirina a basse dosi, che ha dimostrato di ridurre il rischio di morte e di severe complicanze se iniziata nella fase acuta dell’ictus ischemico, anche se solo 13 soggetti su 1000 avranno i benefici del trattamento.
In generale, di un intervento medico, si conoscono maggiormente i benefici rispetto ai possibili danni. I trial non sono disegnati per studiare gli eventi avversi, sia per la limitatezza della popolazione campione, sia per la loro breve durata. Per determinare con sufficiente esattezza il profilo di rischio di un intervento, gli esperti di Prescrire consigliano di effettuare una valutazione complessiva di diverse componenti, in particolare i dati dei trial, le conoscenze di farmacologia, i report spontanei, i risultati della farmacovigilanza, gli studi di farmaco epidemiologia.
E’ inoltre indispensabile conoscere le condizioni in grado di aumentare il rischio di eventi avversi, ad esempio le politerapie, i deficit cognitivi, l’insufficienza renale per i farmaci eliminati per tale via, l’età avanzata, la gravidanza, i problemi di salute presenti o pregressi, le terapie presenti o passate, la facilità o la difficoltà di somministrazione di un farmaco, la presenza o meno di familiari in grado di fornire assistenza.
I tentativi di combinare i dati sull’efficacia di un intervento con i possibili danni mediante modelli matematici, per rendere la valutazione esplicita e il processo decisionale riproducibile, non hanno convinto in quanto possono fornire l’illusione di scientificità, precisione e irrefutabilità di un processo di natura inevitabilmente qualitativa e almeno parzialmente soggettivo. Lo stesso termine “rapporto” rischio-beneficio non viene ritenuto pertinente dagli esperti in quanto parametro di natura matematica o scientifica. Viene ritenuta preferibile la parola bilancio, che rimanda alla valutazione, al “peso” dei vantaggi e degli svantaggi di una decisione.
Studi metodologicamente ineccepibili possono non rispondere ai quesiti riguardanti i pazienti della pratica quotidiana. Bambini, donne in gravidanza, anziani, nefropatici, politrattati, sono in genere esclusi dai trial, che non tengono in considerazione le caratteristiche specifiche dei pazienti e il loro contesto, elementi che condizionano notevolmente gli esiti di ogni intervento.
Il bilancio danno-beneficio dipende infine anche dall’assistenza sanitaria disponibile, dalla competenza ed esperienza del personale sanitario, dalle personali condizioni e stati d’animo dei professionisti coinvolti.
Per evitare che i sanitari proiettino le loro preferenze e valori e decidano al posto dei pazienti è importante che questi siano informati in modo chiaro ed esaustivo in modo da poter condividere le scelte. Gli autori propongono alcuni punti di discussione: spiegare la natura del problema, le sue possibili conseguenze; analizzare con il paziente gli obiettivi per lui rilevanti, anche quelli non medici; presentare le varie opzioni, anche quelle di non intervento; descrivere le possibili conseguenze degli interventi, vantaggi e svantaggi, spiegando natura, intensità, decorso, aree di incertezza; indicare come massimizzare i benefici e minimizzare i pericoli; esplorare con il paziente quanto importanti sono per lui tutte le conseguenze descritte.
La percezione del paziente del bilancio danno-beneficio è dinamica, variabile nei diversi individui e anche nello stesso nel corso della vita, a causa del trascorrere degli anni, dell’insorgenza di malattie o per cambiamenti di valori e priorità. E’quindi fondamentale una periodica rivalutazione, che tenga conto del pensiero del paziente, oltre che dei nuovi risultati della ricerca scientifica.
 
 
Riferimento bibliografico
 
Determining the harm-benefit balance of an intervention: for each patient. Rev Prescrire 2014; 367: 381-385
 
 
Commento di Giampaolo Collecchia
 
I contenuti della review enfatizzano concetti ben noti ai MMG, la cui applicazione pratica peraltro non è sempre realizzata, per mancanza di tempo, stanchezza, ridotta motivazione. E’ quindi molto utile l’invito a riflettere su quello che dovrebbe essere il cardine della nostra professione, l’orientamento al paziente.
La conoscenza della letteratura ci aiuta solo in parte: la trasferibilità della conoscenza prodotta per mezzo dei trial alla realtà della pratica quotidiana è spesso difficilmente realizzabile.
La dimostrazione di efficacia di un determinato intervento non determina automaticamente la decisione di utilizzarlo in qualunque contesto. Non implica che esso sia il migliore nel caso specifico, cioè che sia l’intervento giusto al momento giusto, per la persona giusta, o che intervenire, in un caso specifico, sia meglio di non fare nulla, né se il trattamento teoricamente indicato è riconosciuto tale dal paziente.
La conoscenza scientifica viene infatti costruita mediante semplificazioni, “sterilizzando” le variabili individuali e contestuali allo scopo di bilanciarle per ottenerne una influenza media. I “rumori di fondo” vengono limitati, mentre la pratica clinica si applica su una realtà complessa, fuzzy, nella quale lo sfondo è un elemento fondamentale. Nel prendere decisioni cliniche, il MMG si deve basare anche su fattori non clinici, confrontarsi con le numerose variabili individuali che possono condizionare le scelte, ad esempio la percezione del desiderio talvolta non dichiarato ma implicito del paziente di assumere un farmaco.
Si tratta di passare dall’efficacia teorica all’effettività, dai dati oggettivi, preliminari e probabili, ai giudizi soggettivi, condivisi con l’assistito. La cura, “ideale” secondo i dati di letteratura, deve essere giudicata fattibile, le prove pesate su una diversa bilancia, con una taratura differente.
Ecco perché è sicuramente condivisibile il termine bilancio nella valutazione dei benefici e dei danni di un intervento. La trasferibilità di un risultato alla pratica quotidiana deve implicare un giudizio di valore: il sapere “cosa” fare. La Medicina Generale è infatti ambito in cui si esprime in maniera forte il potere negoziale del paziente e ogni decisione viene negoziata e resa effettiva solo se condivisa. Tale condivisione è obiettivo clinico oltre che obbligo giuridico, concreta strategia professionale per il raggiungimento di un fine che, per essere realmente perseguibile, deve essere condiviso.
 
 
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