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Il "morto cerebrale" e' veramente morto?
Pubblicato da dzamperini in data 17/12/2011 00:00
Pensieri e opinioni professionali E’ già cadavere “chi ha perso irreversibilmente tutte le funzioni cerebrali o encefaliche?”
Prima di impegnarmi nella discussione sull’argomento, è necessario precisare che nel discorso cercherò di evitare totalmente accenni a qualsivoglia fede religiosa o credo politico.
Il mio approccio sarà principalmente scientifico ma anche etico.

Dott. Pasquale Salvatore – Roma – salvatore.p@tin.it


Tutti noi abbiamo un etica.

Ognuno di noi ha la propria etica.
Lapalissianamente un cadavere è morto.
Per parlare di morte dovremmo tentare di dare una definizione di morte.
Il primo pensiero che balza in mente è che la morte è l’opposto, il contrario, la non vita, la fine della vita.
Quindi dobbiamo dapprima introdurre il concetto di vita in quanto dare una definizione della vita è praticamente impossibile: ci hanno discusso filosofi, teologi, biologi, genetisti e chi più ne ha più ne metta. Quindi non ci proverò.
Un vocabolario di uso comune dedica mezza pagina alla definizione del termine "vita".
Una buona enciclopedia filosofica dedica decine di fittissime pagine per definire lo stesso termine, e nella bibliografia cita centinaia di opere antiche e moderne che cercano di spiegare cos’è la vita.
Tutti abbiamo della vita un concetto sufficiente quando parliamo di essa e sufficiente per ritenere la vita un valore positivo, da apprezzare, difendere, conservare, incrementare nel modo migliore.
Il concetto "vita" si chiarisce nel confronto con il concetto "morte".
Col primo s’intende un complesso di attività coordinate da un principio interno dell’essere vivente; col secondo s’intende la cessazione di queste attività e la dissoluzione del vivente, si tratti di vegetale, animale o uomo.
La biologia attribuisce la qualifica di vivente ad un organismo che ha in sé stesso un principio unitario e integratore che ne coordina le parti e ne dirige l'attività.
Gli organismi viventi sono tradizionalmente distinti in vegetali, animali ed umani. La vita della pianta, dell'animale e dell'uomo, pur di natura diversa, presuppone, in ogni caso un sistema integrato animato da un principio attivo e unificatore.
La morte dell'individuo vivente, sul piano biologico, è il momento in cui il principio vitale che gli è proprio cessa le sue funzioni.
Lasciamo da parte il fatto che, per l'essere umano, questo principio vitale, definibile come anima, sia di natura spirituale e incorruttibile.
Anima è vicina al termine greco άνεμος (vento, soffio); spirito (sinonimo di anima) viene dal latino spiritus  (soffio, respiro, alito). Ambedue i termini ricordano che chi è vivo respira.
Fermiamoci al concetto, unanimemente ammesso, che l'uomo può dirsi clinicamente morto quando il principio che lo vivifica si è spento e l'organismo, privato del suo centro ordinatore, inizia un processo di dissoluzione che porterà alla progressiva decomposizione del corpo.
Il concetto di vita, in parole povere, si esaurisce quindi entro il ciclo vitale: nascita, crescita, riproduzione, morte.
La vita è la capacità di un individuo di integrare e coordinare l'insieme delle funzioni vitali di un essere vivente.
Gli esseri viventi sono dotati di movimento: chi si muove è chiaramente e concettualmente vivo.
Chi è morto non è in grado di muoversi.
Ognuno di noi, davanti ad un essere immobile pensa dapprima ed immediatamente che esso possa trovarsi in uno stato di sonno, che possa dormire.
Ma chi dorme respira ed ha una pulsazione cardiaca visibile o riscontrabile attraverso la percezione della pulsazione arteriosa.

La conclusione più banale alla quale si può arrivare è che chi respira ed ha un cuore battente non è morto.
Dobbiamo, a questo punto, porci la domanda: Chi ha perso irrimediabilmente tutte le funzioni cerebrali o encefaliche, può essere definito morto?

Ma se è possibile che si difenda l’embrione, è possibile che non si difenda un essere che ha 37 gradi di temperatura corporea, che è roseo in volto e caldo al tatto?
Questo significa dire che la morte cerebrale non è morte?

Lo scalpore evocato dai primi trapianti di cuore eseguiti il 3 dicembre 1967 e il 2 gennaio 1968 dal chirurgo sudafricano Christiaan Barnard all'ospedale Groote Schuur di Città del Capo su pazienti definiti cadaveri ma che in effetti avevano un cuore battente, stimolò la necessità di una “nuova” concezione di morte.
Era necessario trovare una giustificazione etica ai trapianti.
Però la giustificazione non può essere basata solamente e semplicemente sul dire che quegli esseri sono morti.
Il problema  dell’accertamento di “morte” si presentò dopo il primo intervento eseguito da Barnard, che mostrò che cosa veramente potesse significare “trasferire” la vita da un soggetto appena defunto ad un paziente prossimo alla morte, e sollevò numerose questioni, relative ad esempio al consenso alla donazione degli organi e alle possibilità del loro reperimento.
Per comprendere lo sviluppo del pensiero riguardante la morte cerebrale è opportuno ripercorrere a grandi linee il percorso che ha condotto dal concetto di “morte per arresto cardiaco e/o respiratorio” al concetto di “morte encefalica”.

Un essere vivente per essere giudicato morto, deve aver subito la perdita irreversibile di ciò che è giudicato essenziale per la vita e si deve avere la certezza che la perdita di quella funzione giudicata essenziale, non possa più essere recuperata.
Nel corso degli anni, il progredire delle conoscenze scientifiche ha fatto sviluppare tecniche rianimatorie tali (intubazione, ventilatore automatico, defibrillatore, centri per la rianimazione etc.), da consentire la sopravvivenza di individui già giudicati “clinicamente morti”.
La possibilità che un paziente sottoposto a rianimazione possa tornare indietro dalla morte ha fatto ipotizzare due significati di “irreversibilità”:
Un primo legato alla disponibilità di strumentazione adeguata a ripristinare quelle funzioni vitali che, in linea di principio, si sono arrestate solo temporaneamente e che possono essere ripristinate prima che si verifichi un danno strutturale critico.
Un secondo strettamente biologico connesso ad un danno strutturale con la perdita delle funzioni e della possibilità di ripristinarle per essere stato a lungo in assenza di ossigeno o per problemi circolatori o respiratori.

Sulla definizione di morte cerebrale esistono visioni contrastanti.
Nel 1959 Mollaret e Goulon1  descrissero per primi la condizione creata dalla nuove tecniche rianimatorie, chiamando tale situazione “coma dépassé” ovverosia “stato oltre il coma”.
La domanda che attendeva (e, a mio parere, ancora attende) una risposta era: “il paziente in coma dépassé è un cadavere eventualmente disponibile per la donazione di organi”?
Nel 1968 fu istituito un Ad Hoc Committee of the Harvard Medical School to Examine the Definition of Brain Death., costituito da dieci medici (due trapiantologi), un giurista, un teologo, uno storico, per la definizione di un criterio di morte da seguire per le procedure per il prelievo di organi da destinare al trapianto2.
Il documento elaborato dal Comitato inizia con la frase “La nostra intenzione principale è definire il coma irreversibile come nuovo criterio di morte”.
Ciò significa che il coma irreversibile non era la nuova definizione di morte, ma era semplicemente un nuovo criterio per determinare la morte.
Uno studio preliminare della American EEG Society3 aveva evidenziato che la diagnosi dell’irreversibilità del coma era slightly (leggermente) fallibile.
Nel rapporto di Harvard era anche riportata l’opinione del 1959 di Papa Pio XII: “E’ opinione della chiesa che arriva il momento in cui i tentativi di rianimazione dovrebbero cessare e la morte non dovrebbe essere ostacolata”.
Sulla base di tale affermazione ci si deve domandare se i pazienti in coma irreversibile sono già morti o stanno ancora morendo.
Ciò apre la strada ad una considerazione: se ci sono situazioni in cui la morte non deve essere ostacolata, vuol dire che in alcuni casi sarebbe permesso lasciar morire pazienti sottoposti a rianimazione perché senza speranza ma ciò è diverso dal dire che essi sono morti e che quindi è permesso spegnere il ventilatore e prelevare gli organi.
Il filosofo tedesco Hans Jonas nella sua critica al rapporto di Harvard4  aveva concluso che non era necessario affermare che il paziente in coma irreversibile è morto ma, molto più semplicemente che in certe condizioni è lecito lasciarlo morire.
In conclusione, il rapporto di Harvard non ha spiegato perché ad un encefalo non più funzionante, dovesse corrispondere un essere umano morto.
Agli inizi degli anni ’70 due neurochirurghi del Minnesota, Mohandas e Chou5, avendo sottoposto ad osservazione pazienti con gravi danni cerebrali, avevano concluso che le lesioni irreversibili del tronco encefalico, rappresentavano il punto di non ritorno nel processo di morte.
I due neurochirurghi ritenevano irrilevante l’utilizzo dell’EEG in quanto era emerso che pazienti con tronco cerebrale completamente lesionato potessero conservare attività elettrica cerebrale.
Nel 1976 la Conference of Medical Royal Colleges and their Faculties in the United Kingdom6 riprese la teoria di Mohandas e Chou per cui il problema da risolvere era quello della sospensione dei trattamenti nel caso in cui i pazienti si trovassero in condizione di morte funzionale permanente del tronco encefalico in quanto i membri dei Colleges non ancora avevano deciso che queste condizioni fossero identificabili con la morte dell’organismo.
 Solo nel 1995 il gruppo di lavoro dei Royal Colleges ha definito la morte come “perdita irreversibile della capacità di coscienza combinata con la perdita irreversibile della capacità di respirare”7.
Il mantenimento in funzione degli strumenti per la ventilazione assistita in un paziente dichiarato morto, che nei primi anni del dibattito sulla morte cerebrale non sembrava turbare la coscienza di nessuno, se si eccettua il filosofo tedesco Hans Jonas8, che nel 1999 ha coniato un’espressione per riferirsi a tali soggetti: chiamati heart-beating cadavers, ossia cadaveri a cuore battente, ha fatto si che in poco tempo essi siano divenuti i candidati ideali dai quali prelevare gli organi, ed i criteri neurologici per l’accertamento del decesso sono stati a lungo considerati irrinunciabili per l’attività trapiantologica.

Nel 1980 negli USA era stata costituita la President’s Commission for the Study of Ethical Problems in Medicine and Biomedical and Behavioral Research9  che aveva concluso che il momento della morte era identificato come “il momento in cui il sistema fisiologico dell’organismo cessa di costituire un tutto integrato” in quanto “la prova di un’irreversibile assenza di funzioni nell’intero encefalo, incluso il tronco cerebrale, fornisce mezzi molto affidabili per dichiarare la morte di corpi mantenuti dal respiratore.
Il Protocollo di Pittsburgh10 si fonda essenzialmente su due requisiti: la richiesta del paziente di sospendere i trattamenti ai quali è sottoposto, e il suo desiderio di donare gli organi.
L’articolo intitolato Rethinking Brain Death, scritto da due medici statunitensi, R.D. Truog e J. Fackler11, è una rassegna dell’imponente letteratura scientifica accumulatasi nel corso di anni di osservazioni cliniche e studi neurologici; da tali osservazioni studi è emerso il dubbio che la condizione indicata come morte cerebrale totale non implichi la irreversibile perdita delle funzioni dell’intero encefalo, e che gli esami in uso per determinare quella condizione non documentino la cessazione di tutte le funzioni cerebrali, ma soltanto di alcune.
Truog e Fackler hanno infatti sottolineato che in alcuni pazienti, dichiarati deceduti in base ai criteri neurologici, erano conservate funzioni cerebrali, come quella ipotalamico-ipofisaria e l’attività di gruppi di cellule della corteccia cerebrale rilevabile mediante l’elettroencefalogramma, potevano permanere per qualche tempo dopo la diagnosi, e ciò in aperta contraddizione rispetto a quanto prevede la formulazione del criterio della morte cerebrale totale adottato nella prassi medica.

Il significato di questa scoperta è chiaro: i pazienti che sono dichiarati deceduti nel rispetto delle condizioni previste dai criteri neurologici accolti nella prassi medica ed ammessi dal diritto positivo, conservano ancora alcune funzioni cerebrali.
Per alcuni la “morte cerebrale” non può sancire la fine della vita.
La perdita totale dell'unitarietà dell'organismo, intesa come la capacità di integrare e coordinare l'insieme delle sue funzioni, non dipende infatti dall'encefalo, e neppure dal cuore.
L'accertamento della cessazione del respiro e del battito del cuore non significa che nel cuore o nei polmoni stia la fonte della vita.
Se la tradizione giuridica e medica, non solo occidentale, ha da sempre ritenuto che la morte dovesse essere accertata attraverso la cessazione delle attività cardiocircolatorie è perché l'esperienza dimostra che all'arresto di tali attività fa seguito, dopo alcune ore, il rigor mortis e quindi l'inizio della disgregazione del corpo.
Ciò non accade in alcun modo dopo la cessazione delle attività cerebrali.
Un individuo in stato di "coma irreversibile" può essere tenuto in vita, con il supporto di mezzi artificiali; un cadavere non potrà mai essere rianimato, neppure collegandolo a sofisticati apparecchi.
Questi individui sono i soggetti ideali per donare gli organi.

La dichiarazione dell’Ad Hoc Committee dell’Università di Harvard, creata per dare una giustificazione etica all’espianto degli organi in soggetti dichiarati morti clinicamente, benché a cuore battente, è del luglio ’68.
A distanza solo di un mese, Hans Jonas, filosofo tedesco di origine ebraica, espresse la sua prima presa di posizione, nella quale avanzò delle considerazioni critiche sulla necessità di definire il criterio di morte, distinguendo i due problemi legati all'eutanasia e al prelievo di organi.
In poche parole, Jonas affermava che se i soggetti sono ancora vivi, non si possono prelevare gli organi.
Recentemente, da parte di Paolo Becchi, professore di filosofia del diritto presso l’Università di Torino, è stato pubblicato il libro “Morte cerebrale e trapianto di organi”, nel quale cita un famoso articolo di due professori dell'Università di Harvard, Robert Truog e James Fackler, che sostengono che i criteri adoperati per la definizione di morte non necessariamente presentano la perdita irreversibile di tutte le funzioni cerebrali.

Becchi si chiede: “Cosa significa tutto questo?”
Che quando i medici espiantano un organo ad un uomo morto solo per una convenzione, stabilita a loro uso, in realtà lo strappano ad una persona che è ancora viva.
E non potrebbe essere diversamente perchè se fosse veramente morta lo sarebbero anche i suoi organi che quindi non potrebbero essere più utilizzati per gli espianti e i trapianti.
E questo è tanto più vero dato che, come si è ricordato, delle persone considerate ufficialmente morte vengono tenute artificialmente in vita per poter procedere all'espianto.
Becchi continua: “I medici, quindi quando espiantano gli organi non solo uccidono una persona ancora viva ma quando la tengono in vita artificialmente impedendo la morte naturale, la torturano, per ore, per giorni.
Si dirà che espianti e trapianti servono a salvare altre vite.
Ma a parte che per ottenere questo risultato bisogna uccidere, dopo averli torturati, uomini vivi, a parte che a me sembra orribile essere costretti a sperare che un ragazzino di 14 anni si spacchi il cranio col suo motorino per salvare un uomo di 60, ciò favorisce una cultura e una mentalità, già ampiamente presente nella società del benessere che ha stolidamente proclamato il diritto alla felicità, di non-accettazione della morte (che felicità ci può mai essere se poi, a conti fatti, sia pur con qualche dilazione, si muore lo stesso?).
La morte (la morte biologica intendo, quella inevitabile) è stata rimossa, scomunicata, proibita, dichiarata pornografica, è "il Grande Vizio che non osa dire il suo nome", tanto che i media non ne parlano e preferiscono puntare pesantemente sulla medicina tecnologica che prima o poi ci guarirà da tutti i mali e, forse, ci renderà immortali. Ma questa rimozione di un evento comunque ineluttabile porta inevitabilmente con sè una paura della morte quale nessuna società del passato ha mai conosciuto in questa misura. E come diceva il vecchio e saggio Epicuro: “Muore mille volte, chi ha paura della morte”.

Nel 2002 il caso di Erlangen12, dove un gruppo di medici ha fatto proseguire la gravidanza ad una donna dichiarata morta in quanto le sue condizioni corrispondevano a quelle della morte cerebrale per infarto totale, ha contribuito a scuotere un’altra assunzione alla base dell’applicazione dei criteri neurologici.
Si tratta dell’affermazione secondo la quale l’encefalo è il responsabile dell’integrazione, controllo e regolazione dell’organismo affinché esso possa sussistere come un tutto.
Se l’integrazione corporea dipendesse esclusivamente dall’encefalo funzionante, sarebbe impossibile dare conto del funzionamento dell’organismo di una paziente dichiarata deceduta sulla base dei criteri neurologici, ma rimasta collegata alle apparecchiature per la ventilazione artificiale ed assistita nel tentativo di farle proseguire una gravidanza in corso.

Il processo di ripensamento critico iniziato con questi fatti ha condotto, ad esempio, il neurologo pediatrico Alan Shewmon13 a modificare le proprie credenze e certezze: egli è così passato da una prima accettazione dei criteri per la morte cerebrale totale ad un completo rifiuto di criteri esclusivamente neurologici per l’accertamento del decesso.
Alcuni casi illustrati nella letteratura di lingua inglese ed esposti da Shewmon14 non possono che far discutere sull’affidabilità di questi criteri e test. Il neurologo ha descritto e commentato alcuni casi di pazienti pediatrici ai quali era stata diagnostica la morte cerebrale, e che, contrariamente a tutte le aspettative, erano sopravvissuti per lunghi periodi (in un caso record oltre i 14 anni).
Per Shewmon “sopravvissuto” è un termine utilizzato con duplice senso: esso può riferirsi a pazienti collegati alle apparecchiature, in condizione neuropatologica dell’infarto cerebrale totale, i quali, contrariamente a tutte le previsioni, non hanno subìto arresto cardiaco spontaneo a breve distanza dalla conferma della diagnosi. Il medesimo vocabolo è però impiegato dal neurologo anche per riferirsi al caso di un paziente in stato di morte cerebrale, il quale dopo essere stato scollegato dalle apparecchiature per la ventilazione artificiale, ha iniziato a respirare spontaneamente. Dimesso dall’ospedale, assistito presso il proprio domicilio, è rimasto in questa condizione irreversibile per oltre quattordici anni, durante i quali egli era in grado di rispondere a stimoli applicati alla cute e manifestare un rudimentale livello di coscienza.
Attraverso la valutazione obiettiva di quei pazienti ed il controllo delle cartelle cliniche e dei referti degli esami, Shewmon ha potuto escludere un errore nella diagnosi: pertanto, l’obiezione che tutti ci aspetteremmo di sollevare, ossia di un mero errore diagnostico commesso dai neurologi, viene immediatamente a cadere, ma quale spiegazione si può dare di questi inusuali casi?
Se, come asserisce il neurologo statunitense, quei pazienti pediatrici si trovavano in condizioni tali da soddisfare i criteri per la morte cerebrale totale, dobbiamo domandarci: quei criteri sono del tutto inaffidabili, e pertanto dovrebbero essere abbandonati, o, pur essendo adeguati per diagnosticare un danno neurologico irreversibile, dobbiamo pensare che quel danno non possa essere considerato come la morte dell’organismo?
La risposta di Shewmon è inequivocabile: la “sopravvivenza” in condizioni di infarto cerebrale totale, dimostra che tale condizione non è la morte dell’organismo.
Le osservazioni cliniche del neurologo pediatra statunitense dimostrano che l’organismo di quei soggetti è formato da parti che funzionano in modo perfettamente integrato e, di conseguenza, la giustificazione per l’equivalenza tra morte cerebrale e morte dell’organismo, ossia la perdita di integrazione corporea che sarebbe causata dal venire meno delle funzioni cerebrali, è soltanto un’affermazione non suffragata dai fatti.
In effetti la “morte cerebrale” non è la morte dell’individuo come un tutto ma è semplicemente l’inizio del processo di morte che, ove non si prosegua con le manovre rianimatorie, si concluderà, dopo l’arresto respiratorio, con l’arresto definitivo dell’attività cardiaca, della circolazione ematica, dell’ossigenazione dei tessuti, con la morte di tutte le cellule componenti l’organismo come un tutto.
La diagnosi ufficiale e la certificazione di morte cerebrale servono quindi unicamente allo scopo del prelievo degli organi al fine di trapianto.

Il Comitato nazionale per la Bioetica ha definito la morte come : “Perdita totale ed irreversibile della capacità dell’organismo di mantenere autonomamente la propria unità funzionale”.
La vigente legislazione italiana è basata sulla Legge 29.12.1993 n.ro 578 che all’art. 1 identifica la morte con la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo e sul Decreto Ministeriale 11 aprile 2008 che ha aggiornato il Decreto Ministeriale 22 agosto 1994, n. 582 Gazzetta Ufficiale 19 ottobre 1994, n. 245 Regolamento recante le modalità per l'accertamento e la certificazione di morte.
L’art. 2 di questo regolamento recita: Nei  soggetti  affetti  da  lesioni  encefaliche  sottoposti  a trattamento  rianimatorio,  salvo  i  casi  particolari  indicati  al comma 2, le condizioni che, ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578,  art.  3,  impongono al medico della struttura sanitaria di dare immediata comunicazione alla Direzione sanitaria dell'esistenza di un caso  di  morte  per  cessazione  irreversibile  di tutte le funzioni dell'encefalo  sono……..

Secondo il citato DM 11.4.2008, esistono due procedure per accertare il decesso di un paziente.
Quando il paziente è colpito da arresto cardiaco e/o arresto respiratorio l’accertamento della morte viene eseguito facendo ricorso ai tradizionali criteri cardio-polmonari, il medico curante effettua denuncia di morte al Sindaco del comune di competenza, compilando l’apposita scheda predisposta dall’Istituto Centrale di Statistica. Un medico necroscopo effettua la visita di controllo, da effettuarsi non prima di 15 ore dal decesso. Essa ha per oggetto la constatazione dell'autenticità della morte ai fini del seppellimento, il riconoscimento della sua causa, l'accertamento e la denunzia di eventuali sospetti di reato, l'adozione di eventuali provvedimenti in ordine alla Sanità ed all'igiene pubblica, secondo quanto previsto dagli artt. 1 e 2 della legge 29/12/1993 n.578 e dagli artt. 1 e 2 del D.M. Sanità del 22/08/1994 n.582. In esito alla visita, il Medico Necroscopo, compila l'apposito certificato dell'ufficio,  che resta allegato al Registro degli atti di morte. Le funzioni di Medico Necroscopo sono esercitate, alle dipendenze del Responsabile Sanitario della ASL., da un medico nominato dalla stessa ASL competente.
Quando invece il paziente affetto da lesioni cerebrali si trovi in struttura sanitaria e sia sottoposto a ventilazione assistita, vengono impiegati i criteri previsti dal Decreto 11 aprile 2008, aggiornamento  del  decreto  22 agosto  1994,  n.  582  relativo  al «Regolamento   recante   le   modalita'   per   l'accertamento  e  la certificazione di morte».

L’art. 2 di questo regolamento recita: Nei  soggetti  affetti  da  lesioni  encefaliche  sottoposti  a trattamento  rianimatorio,  salvo  i  casi  particolari  indicati  al comma 2, le condizioni che, ai sensi della legge 29 dicembre 1993, n. 578,  art.  3,  impongono al medico della struttura sanitaria di dare immediata comunicazione alla Direzione sanitaria dell'esistenza di un caso  di  morte  per  cessazione  irreversibile  di tutte le funzioni dell'encefalo, sono:
a) assenza  dello stato di vigilanza e di coscienza, dei riflessi del tronco encefalico e del respiro spontaneo;
b) assenza di attività elettrica cerebrale;
c) assenza   di   flusso  ematico  encefalico,  nelle  situazioni particolari previste al comma 2.
L'iter  diagnostico  deve  comprendere  la  certezza della diagnosi etiopatogenetica  della lesione encefalica e l'assenza di alterazioni dell'omeostasi termica, cardiocircolatoria, respiratoria, endocrinometabolica,   di   grado  tale  da  interferire  sul  quadro clinico-strumentale complessivo.
2.   E'   prevista  l'esecuzione  di  indagini  atte  ad  escludere l'esistenza   di  flusso  ematico  encefalico  nelle  sotto  elencate situazioni particolari:
a) bambini di età inferiore ad 1 anno;
b) presenza  di  farmaci  depressori del sistema nervoso di grado tale  da  interferire  sul quadro clinico-strumentale complessivo; in alternativa  al  rilievo  del  flusso  ematico cerebrale, l'iter può essere  procrastinato sino ad escludere la possibile interferenza dei suddetti farmaci sul quadro clinico-strumentale complessivo;
 c) situazioni   cliniche   che   non   consentono   una  diagnosi eziopatogenetica  certa  o  che impediscono l'esecuzione dei riflessi del   tronco  encefalico,  del  test  di  apnea  o  la  registrazione dell'attività elettrica cerebrale.
3.  Per l'applicazione delle indagini strumentali di flusso ematico cerebrale  si  rinvia  alle Linee guida di cui in premessa, approvate dalla Consulta tecnica nazionale per i trapianti.
4.  Nel caso in cui il flusso ematico cerebrale risulti assente, il medico   della   struttura sanitaria  e'  tenuto  a  dare  immediata comunicazione  alla  Direzione sanitaria, ai sensi dell'art. 3, legge 29 dicembre 1993, n. 578.
L’art. 3 dice che la morte è accertata quando sia riscontrata, per il periodo di osservazione previsto dall’art. 4 (la durata del periodo di osservazione deve essere non inferiore a 6 ore), la contemporanea presenza delle seguenti condizioni:
a)       assenza dello stato di vigilanza e di coscienza
b)       assenza dei riflessi del tronco encefalico: riflesso foto-motore,  riflesso corneale, reazioni a stimoli dolorifici portati nel territorio d’innervazione del trigemino, risposta motoria nel territorio del facciale allo stimolo doloroso ovunque applicato, riflesso oculo-vestibolare, riflesso faringeo, riflesso carenale
c)        assenza di respiro spontaneo con valori documentati di CO2 arteriosa non inferiore a 60 mm Hg e pH ematico non superiore a 7,40, in assenza di ventilazione artificiale
d)       assenza di attività elettrica cerebrale, documentata da EEG eseguito secondo le modalità tecniche riportate nell’allegato 1 al presente decreto, di cui costituisce parte integrante;
e)        assenza di flusso ematico encefalico preventivamente documentata nelle situazioni particolari previste dall’art. 2.
1)                                          L’attività di origine spinale spontanea o provocata non ha alcuna rilevanza ai fini dell’accertamento della morte, essendo compatibile con la condizione di cessazione irreversibile di tutte le funzioni encefaliche
2)                                          Nel neonato, nelle condizioni di cui al presente articolo, l’accertamento della morte può essere eseguito solo se la nascita è avvenuta dopo la trentottesima settimana di gestazione e comunque dopo una settimana di vita extrauterina.
La prima domanda che balza alla mente è: “Perché si usano differenti espressioni (morte per arresto cardiaco e morte nei soggetti affetti da lesioni encefaliche) per riferirsi alla morte dell’essere umano”?
La morte per arresto cardiaco è ampiamente accolta e diffusa nel comune sentire della totalità della popolazione: se si pensa alla morte si pensa ad un individuo in cui cuore e respirazione si sono arrestate.
La nozione di morte cerebrale, nozione relativamente recente, è stata ampiamente accolta nella pratica medica dei paesi occidentali ma esistono variazioni sensibili per l’accertamento della stessa morte cerebrale.

Forse sarebbe indispensabile prima tentare di chiarire, come aveva fatto Morison15  se la morte deve essere intesa come un evento o come un processo.
La constatazione intuitiva che la morte è la cessazione della vita e che la vita si identifica con la presenza di funzioni ritenute essenziali, porta alla inevitabile conclusione che un essere vivente è morto se ha irrimediabilmente perso tali funzioni che sono tre: respiratoria, circolatoria e cerebrale.
Tali funzioni cessavano irrimediabilmente a breve distanza l’una dall’altra prima dell’avvento delle manovre rianimatorie. La ventilazione artificiale ha interrotto tale cascata di eventi.
Un soggetto privo di funzioni cerebrali che “respira” perché l’aria viene insufflata nei suoi polmoni ed il cuore batte perché il cuore è ossigenato è già morto oppure in lui sta avvenendo un processo che lo porterà entro breve tempo alla cessazione della vita?
La condizione identificata come “morte cerebrale” è:
a)      Segnale che il paziente sta morendo, ovverosia che il processo della morte ha  raggiunto un punto critico di non ritorno?
b)      Segnale dell’avvenuto decesso del paziente?
Se la morte cerebrale è segnale che il paziente sta morendo ciò vuol dire lapalissianamente che il paziente è ancora vivo.
Se invece la morte cerebrale coincide esattamente con la morte dell’organismo, ciò vuol dire altrettanto lapalissianamente che il paziente è definitivamente morto.
In entrambi i casi si raggiunge lo stesso risultato: la sospensione delle terapie rianimatorie nel primo caso è fondata su un ragionamento morale secondo il quale in certe situazioni è lecito lasciare che il processo del morire si concluda, nel secondo caso la scelta di sospendere le terapie è il risultato della constatazione della morte.
La decisione di non continuare i trattamenti in caso di coma irreversibile deve fondarsi sulla consapevolezza che in certe situazioni viene meno l’imperativo etico di preservare la vita?
Ciò significherebbe che in certe situazioni “la vita è indegna di essere vissuta”.
Se ciò fosse vero, quali sono le funzioni cerebrali che, se perdute, renderebbero una vita più o meno degne di essere vissute di altre?

Secondo Kass16  l’organismo muore come un tutto e per affermare questo si rifà al concetto di necrosi che è la morte delle cellule o dei tessuti in un organismo vivente: anche quando l’individuo intero muore, muore parte per parte, in momenti differenti ed è impossibile dire, a causa della variabilità di resistenza cellulare, quando tutte le parti componenti il corpo sono morte.
Per il filosofo inglese Lamb17  la morte clinica è l’evento che segna la cessazione irreversibile dell’integrazione corporea dell’organismo come un tutto ed è distinta dalla morte biologica che è invece, la graduale cessazione irreversibile della funzione di tutti gli organi.
Il processo del morire può protrarsi per qualche tempo dopo che si sia verificata la morte clinica ed esso risulta definitivamente compiuto con la morte biologica.
Secondo Jonas18 invece, anche se le funzioni superiori della persona hanno la loro sede nel cervello, la sua identità è quella dell’intero organismo.
“Un cervello è unicamente il cervello di questo e di nessun altro corpo come un corpo è unicamente il corpo di questo e di nessun altro cervello”18

Quindi, proprio per il fatto che corpo e cervello sono così intimamente connessi, un corpo non può essere considerato alla stregua di un cadavere quando, sia pure con la ventilazione artificiale, respira ancora e funziona dal punto di vista organico.
In conclusione si può dire che, pur non essendo  l’individuo un “cadavere”, cioò non essendosi ancora completato il processo della “morte dell’organismo come un tutto”, l’esigenza di ottenere organi per il trapianto, ha portato a discutere sulla morte come processo scandito da diversi stadi al fine di stabilire, “per convenzione”, il momento della irreversibilità della cessazione funzionale dell’organo “critico”.
 
Dott. Pasquale Salvatore – Roma – salvatore.p@tin.it

 
Bibliografia
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