Medico costretto al risarcimento perchè la bambina Down e' nata
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Argomento: Pensieri e opinioni professionali


Riflessioni sulla sentenza (a mio giudizio fraintesa nelle effettive motivazioni) sul risarcimento “iure proprio” al bambino nato Down perche’ il medico non aveva indicato la possibilita’ di abortire. (Cass. civ., sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754).
La sentenza e’ assai lunga e complessa, e spesso espressa in aulici termini filosofici e giuridici; mi limitero’ a riportarne le parti salienti, e alcune considerazioni personali.
In fondo, per chi volesse, il link al testo integrale
Daniele Zamperini



I fatti:

Una donna in gravidanza aveva chiesto al ginecologo l’ effettuazione dell’ amniocentesi, ponendo come condizione per la prosecuzione della propria gravidanza la sicurezza che il figlio fosse sano.
Il medico, per la giovane eta’ della paziente e per la modestia del rischio, non effettuava il test richiesto, limitandosi ad effettuare il Tritest, meno preciso, che risultava negativo. La bambina, invece, nasceva effettivamente affetta da Trisomia 21 o Sindrome di Down.
Il medico, non effettuando l'amniocentesi, ha impedito la corretta informazione della madre sulla salute del feto cosi’ precludendo la libera scelta, sancita dalla legge, tra la continuazione della gravidanza o la sua interruzione.
Si e’ venuto quindi a verificarsi un danno per i genitori, obbligati al mantenimento di una figlia affetta da handicap, che gia’ in casi precedenti era stato ammesso al risarcimento
La novita’ di questa sentenza e’ invece quella che, oltre al risarcimento ai genitori (e ai fratelli della bambina per i disagi esistenziali dovuti alla necessaria convivenza con una sorellina handicappata) , e’ stato concesso anche un risarcimento diretto iure proprio alla bambina, in quanto obbligata a nascere con handicap.

E’ su quest’ ultimo punto che si e’ scatenata una violenta diatriba.

La sentenza effettua una profonda, complessa e a volte eterea e apparentemente ondivaga disamina delle normative e dei precedenti.
Viene estesamente trattato un precedente caso francese, il caso Perruche,  nel quale i genitori agirono giudizialmente per chiedere il risarcimento non solo per se stessi, ma anche in nome del figlio. Alla base della richiesta, il concetto di nascita sbagliata e, quindi, di vita che non vale la pena di essere vissuta. Si reclamava, in sostanza il diritto a non nascere e di essere abortito.
Il dibattito giuridico che ne segui’ non e’ ancora del tutto risolto, con decisioni contrastamti dei diversi Tribunali.

La sentenza odierna della Corte di Cassazione cerca di affrontare il problema da un’ angolazione diversa, pur glissando esplicitamente sui temi etici che, dicono i magistrati, non sono di loro competenza (esprimendo anche l’ inedito concetto, per i non giuristi, di un ordinamento di “Civil law semi-aperta”). La Corte si premura di precisare, a tale proposito, che il diritto ad essere risarcita per la propria “nascita indesiderata” non viene riconosciuto in capo alla ragazzina in nome di una titolarità del nascituro, in quanto il feto, di per se’, non gode di diritti in quanto non ha la personalità giuridica di un essere umano già nato: il diritto a non nascere (o a essere abortiti) si può far valere solo nascendo, allorche’ si diviene titolari di dirutto. Ne consegue il paradosso che prima della nascita questo diritto non è riconoscibile, dopo non può più essere rispettato.

Ma la Corte insiste piu’ volte che la sua decisione non riguarda il tema etico del “diritto a non nascere se non sani” ne’ sul diritto all’ “eutanasia precoce”, ma solo il tema se il neonato nato “non sano” in seguito ad inadempimento del medico (mancata informazione) abbia diritto o no ad un autonomo risarcimento.
E’ pacifico il risarcimento ai genitori per non aver potuto scegliere autonomamente, come loro diritto, se abortire o continuare la gravidanza.
Viene riconosciuto il diritto al risarcimento anche ai fratelli e ai prossimi congiunti, per il danno esistenziale dovuto alla necessita’ di accudire un soggetto affetto da Sindrome di Down.
I risarcimenti ai familiari e alla ragazza, spiega la Corte,  sono riconosciuti in via del tutto autonoma ed indipendente.

Sebbene non si discuta sulla non meritevolezza di una vita handicappata (dice la Corte)  si deve riflettere su una vita che andrebbe sempre vissuta al meglio, senza disagi «attribuendo direttamente al soggetto che di tale condizione di disagio è personalmente portatore il dovuto importo risarcitorio, senza mediazioni di terzi, quand’anche fossero i genitori».
Viene quindi riconosciuto espressamente il diritto al risarcimento “iure proprio” alla bambina.
Ma puo’ essere lecita una domanda risarcitoria avanzata personalmente dal bambino attraverso i suoi genitori? Essa trova il suo fondamento negli artt. 2, 3, 29, 30 e 32 della Costituzione, considerando non l’infermità intesa in senso naturalistico, bensì lo stato funzionale di infermità, la condizione evolutiva della vita handicappata.

L’interesse giuridicamente protetto, del quale viene richiesta tutela da parte del minore ai sensi delle disposizioni costituzionali richiamate, è quello che gli consente di alleviare, sul piano risarcitorio, la propria condizione di vita. La legittimità dell’istanza risarcitoria iure proprio del minore deriva, pertanto, da una omissione colpevole del sanitario cui consegue la sua stessa esistenza diversamente abile, che discende a sua volta dalla possibilità legale dell’aborto riconosciuta alla madre in una relazione con il feto quale alter dell’ego della donna stessa (in un rapporto tra includente ed incluso).
L’evento di danno è dato quindi dalla stessa esistenza diversamente abile. Non va pero’ considerato come semplice somma algebrica delle sue componenti (nascita + handicap = risarcimento), ma situazione esistenziale che, in presenza di tutti gli elementi del fatto illecito, consente e impone al diritto di intervenire in termini risarcitori affinché quella condizione umana ne risulti alleviata, assicurando al minore una vita meno disagevole.

Considerazioni personali:
La discussione su tale sentenza si e’ svolta su due piani: un piano direttamente pragmatico, per il fatto che viene risarcita dal medico una menomazione fisica come se fosse stata da lui causata (cosa che non e’ essendo malattia genetica) mentre egli e’ solo respondabile di averne consentito la piena espressione in un soggetto vivente.

Ci si chiede anche se il comportamento del medico, che ha rifiutato di effettuare un’ indagine non routinaria e non prevista dai protocolli, e da lui ritenuta non necessaria  possa effettivamente costituire (e personalmente nutro forti dubbi) una responsabilita’ professionale.
Il secondo piano di discussione, come detto sopra, e’ costituito dal tema etico che, come sempre, divide i contendenti in schiere contrapposte e senza possibilita’ di dialogo. E come sempre, qualsiasi cosa stabilisca la legge, non puo’ soddisfare il sentimento (emotivo, religioso, morale) di tutti gli individui. Mlgradi che la Corte abbia ribadito piu’ volte l’ invito a non considerare questa sentenza come espressione di presa di posizione etica, cosi’ non e’ stato.

A me sembra che molti oppositori a questa sentenza non ne abbiano colto la vera finalita’, non tesa ad indicare astratti “diritti a non nascere o ad essere abortiti” quanto a tutelare materialmente ed economicamente una vita che si prevede densa di gravi problematiche esistenziali e familiari.
In altre parole: il medico ha mancato (secondo la Corte), omettendo di effettuare gli accertamenti richiesti e, dopo, omettendo di comunicare alla madre, le malformazioni della figlia.
Queste mancanze rappresentano una responsabilita’ professionale e un dovere risarcitorio del danno provocato.
La madre avrebbe potuto abortire oppure no, non sappiamo e, tutto sommato, non ci interessa; in ogni modo il fatto illecito ha causato in concreto delle conseguenze che vanno economicamente  risarcite.
Normalmente il risarcimento va elargito ai genitori, ma i giudici si sono posti il problema di quella che dovra’ essere la vita della bambina allorche’ i genitori venissero a mancare, ed hanno concluso che essa avesse diritto ad un risarcimento personale, autonomo rispetto a quello elargito ai familiari, che potesse proteggerla per il resto della vita.

A me, se ho ben interpretato, con tutto il rispetto per pareri diversi e restando su un piano concretamente pratico, sembra un intendimento lodevole, anche se per tutelare la bambina i giudici hanno sanzionato molto severamente (troppo) il comportamento di un medico che tutto sommato non meritava tanta severita’.
E’ purtroppo una tendenza che si sta diffondendo (e lo abbiamo rilevato in parecchie sentenze) quella di tutelare il soggetto debole attribuendo, senza andare troppo per il sottile, una responsabilita’ al sanitario in modo da giustificare il risarcimento.
In ogni modo, e’ possibile scaricare la sentenza integrale a questo indirizzo.

Daniele Zamperini





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