Attribuibilità degli eventi cardiovascolari in Medicina Generale
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Argomento: Pensieri e opinioni professionali


Lo studio, eseguito nel contesto della Medicina Generale (MG) italiana, si è proposto di analizzare e ricostruire i percorsi di senso che portano i Medici di Famiglia ad attribuire causalità agli eventi cardiovascolari.

Metodologia

I ricercatori hanno compilato sia una scheda-evento (dati anagrafici, diagnosi e data dell’evento, caratteristiche del paziente, grado di attesa dell’evento e grado di conoscenza del paziente da parte del medico) sia una scheda-diario (riflessioni che gli eventi hanno suscitato nei medici). Le due schede sono state compilate per ogni paziente colpito da infarto miocardico acuto (IMA), ictus o morte cardiovascolare nel periodo 1 novembre 2007-31 ottobre 2008. Le riflessioni sono state analizzate utilizzando la tecnica di analisi dei dati che si rifà alla Grounded theory. Per la codifica dei dati è stata utilizzato Atlas.ti un software per l’analisi qualitativa.

Risultati
Dei 169 MMG aderenti, 73 (42,2%: 21 femmine e 52 maschi) hanno segnalato almeno un evento. Complessivamente sono stati segnalati 248 casi. L’età media era di 70,6 anni e oltre la metà era di sesso maschile (65,3%). L’evento più frequente è stato l’IMA (42,4% dei casi), mentre l’ictus e la morte cardiovascolare hanno rappresentato il 29% ciascuno delle segnalazioni. L’88% dei pazienti era conosciuto dal medico, ma in circa 1/3 dei casi l’evento non era atteso.
La condizione clinica (84%), gli stili di vita (50%) e i fattori psicosociali (39%) sono stati ritenuti rilevanti per l’evento occorso. Tra questi, l’ipertensione arteriosa (79%) per la clinica, la sedentarietà e l’alimentazione scorretta (circa il 67%) per gli stili di vita e il basso livello culturale (50%) per i fattori psicosociali sono stati i più rappresentati.
Per il 32% dei pazienti l’evento non era atteso e in particolare si trattava soprattutto di donne (42%), di soggetti con età inferiore ai 60 anni (29%) e di pazienti poco conosciuti. In generale, laddove l’evento non era atteso, il medico identificava minori problematiche relative alla clinica, alla compliance agli stili di vita, ai fattori psicosociali e all’accesso alle cure. Le riflessioni dei medici hanno interessato il 57% dei casi.

Conclusioni
Nel processo di attribuzione di senso il MMG recupera la dimensione olistica del paziente, prendendo in considerazione, in modo retrospettivo, una vastità eterogenea di elementi in gioco (clinici, sociali, relazionali e organizzativi) che, in una complessa relazione, contribuiscono alla determinazione dell’evento. Attiva un percorso caratterizzato dalla ricerca degli elementi che “non hanno funzionato” nel processo, cioè delle “mancanze”, del medico, del paziente e di entrambi, che fanno trasparire una cornice interpretativa di responsabilità e di colpa.
In alcuni casi il medico si colpevolizza per mancanze relative all’accuratezza della diagnosi o attenzione verso il paziente, in altre il riferimento è focalizzato sul paziente come cattivo utente (per cattiva volontà o impossibilità).
Un ambito in cui i medici esprimono la percezione di carenza è la comunicazione del rischio, processo interattivo complesso, che prevede uno scambio di emozioni, valori e opinioni, indispensabile per condividere la natura del rischio e concordare le azioni da intraprendere. In taluni casi il medico fa riferimento alla difficoltà del paziente a raccontare i suoi sintomi in modo utile al medico per capire il suo problema. Il linguaggio degli organi che non funzionano infatti non è completamente noto sia al paziente sia al curante e la semantica della soggettività è ancora poco sviluppata.

Alcune volte emerge la complessità del contesto come elemento che entra nella relazione e influisce nella sua forma. Sono i casi in cui ci si riferisce alla necessità di nuovi modelli organizzativi che superino l’intervento on demand per offrire interventi programmati secondo una logica longitudinale, prognostica e preventiva.
 
Giampaolo Collecchia
 
Bigliografia
Bosisio M, Collecchia G, Mangiagalli A, Ciminaghi R, Parolin LL, Perrotta M. Attribuibilità degli eventi cardiovascolari in medicina generale. Ricerca & Pratica 2011; 27: 48-58

Commento di Renato Rossi
Lo studio recensito in questa pillola e presentato da uno degli autori è interessante per vari motivi.
Mostra, per esempio, che i medici partecipanti si ritengono, spesso, insoddisfatti per come riescono a comunicare al paziente il rischio cardiovascolare.
E' noto che si tratta di un punto particolarmente critico perchè non è mai semplice far capire il "rischio potenziale e futuro" ad un soggetto che in quel momento sta bene o ritiene comunque di non essere malato.
E' esperienza comune di ogni medico pratico che il paziente a rischio tende ad elaborare risposte che in qualche maniera "scotomizzano" il rischio stesso, se non addirittura squalificano le parole del medico. E'classico il caso del forte fumatore che, consigliato caldamente e ripetutatmente dal proprio medico di famiglia di smettere di fumare, cita l'ultraottantenne che è arrivato a quell'età continuando a fumare oppure quel suo conoscente che è deceduto per infarto miocardico prima dei 60 anni e non aveva mai fumato!

Un altro dato interessante che emerge è questo: in circa un paziente su tre l'evento cardiovascolare oggetto dello studio (infarto miocardico acuto, ictus, morte cardiovascolare) era ritenuto dai medici curanti "non atteso". In particolare questo riguardava soprattutto le donne, i soggetti con meno di 60 anni e i pazienti poco conosciuti.
Se è, per certi versi, comprensibile che il medico ritenga inatteso un evento cardiovascolare che si verifica in un paziente poco noto (ritenuto pertanto "più sano" oppure con rischio mal valutabile per carenza di informazioni), lo è meno quando riguarda donne e soggetti relativamente giovani. Probabilmente questo deriva dal pregiudizio (ci scusi il lettore per il termine forse un po' forte) che le malattie cardiovascolari siano prerogativa quasi esclusiva degli uomini anziani. E' stato ampiamente sottolineato in letteratura che la credenza che le donne siano più protette degli uomini verso la cardiopatia ischemica può portare talora a sottovalutare nel sesso femmile determinati sintomi, con la potenziale conseguenza di diagnosi e cure ritardate.
 
In realtà noi medici non dovremmo mai sorprendercii se un determinato evento colpisce un paziente che, in base a nostre valutazioni, era ritenuto a basso rischio. Infatti basso rischio "non significa nessun rischio". Così, se dopo aver valutato il rischio cardiovascolare di un determinato soggetto, vediamo che, avendo una probabilità di eventi a 10 anni del 7%, lo stratifichiamo come a basso rischio, questo non vuol dire che nei prossimi 10 anni quello stesso paziente non possa andar incontro a un infarto miocardico oppure a un ictus o a un decesso cardiovascolare.

Infatti vanno sempre tenute presenti due considerazioni.
La prima è che, per quanto accurati possano essere i nostri algoritmi per calcolare un rischio, si tratta comunque di un mezzo imperfetto e che il rischio potrebbe essere sottostimato (per esempio perchè non abbiamo considerato, nell'elaborazione, altri fattori causali, noti e non noti).
La seconda considerazione è che non esiste il rischio "zero". Se il rischio di un evento cardiovascolare a 10 anni per quel paziente è del 7% significa che nei prossimi 10 anni su 100 soggetti con quelle caratteristiche ben 7 andranno incontro a un evento.





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