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Quando le interpretazioni degli studi sono fuorvianti
Pubblicato da dzamperini in data 16/08/2014 00:00
Pensieri e opinioni professionali Non e’ tutto oro cio’ che luccica: Comuni trabocchetti nell’interpretazione degli studi clinici: esempi da studi su ezetimibe.
Una presentazione approfondita delle corrette tecniche statistiche (per appassionati della materia, e non solo).



Ai tempi di Semmelweis le cose apparivano molto chiare: questo illustre medico intuì che la febbre puerperale, che nel suo ospedale colpiva molte donne dopo il parto, poteva essere provocata dagli stessi medici e dagli studenti di medicina che visitavano le pazienti dopo aver fatto pratica di dissezione dei cadaveri. Per verificare questa ipotesi Semmelweiss ordinò che chiunque dovesse visitare le puerpere si lavasse bene le mani con una soluzione disinfettante di cloruro di calcio. Questa nuova prassi portò ad una drastica riduzione dei decessi da febbre puerperale. Non c’era bisogno in questo caso di approfondite conoscenze biostatistiche: la differenza tra lavarsi o non lavarsi era abissale, sia in termini di frequenza che di rilevanza dell’outcome.

Le cose sono, nel tempo, cambiate, da un lato per la dominanza della cultura medico scientifica anglosassone che ha come fondamento etico la necessita’ di fornire evidenze ; dall’altro per le stesse esigenze dei produttori di presidi farmaceutici, che hanno reso necessario analizzare differenze tra i due bracci sempre più piccole. I clinici per molto tempo sono stati invece abituati ad analizzare differenze piuttosto grandi e spesso non è comune tra i ricercatori clinici, che il piu’ delle volte non hanno ricevuto una specifica formazione nel corso dei loro studi, un bagaglio formativo adeguato ad affrontare con senso critico le insidie interpretative dei risultati della ricerca.

Le differenze da analizzare tra i bracci a confronto sono divenute sempre più marginali quando nella metodologia degli studi clinici si è affermata per motivi etici l’esigenza di assicurare al gruppo di controllo un trattamento comunque efficace. In queste circostanze l’intervento oggetto di studio deve essere confrontato con una terapia attiva in grado comunque di fornire benefici. E’ evidente cosi’ che le differenze da studiare tra braccio di intervento e braccio di controllo diventano sempre piu’ piccole e per ragioni statistiche cio’ implica dover utilizzare nelle ricerche dimensioni campionarie sempre piu’ grandi.

Il tipo di risposte che oggi vengono richieste all’ organizzazione di uno studio riguardano non solo end-point surrogati ( quali ad esempio la variazione di un parametro bioumorale) ma anche eventi clinicamente rilevanti come ictus, infarti e mortalità specifica o generale. Studi del genere (ossia con eventi clinici come endpoint) abbisognano di ampie casistiche, che devono essere analizzate per anni in quanto, oltre alla necessita’ di dimostrare piccole differenze tra i bracci a confronto, la frequenza degli eventi e’ di per se piuttosto scarsa. In molti casi la bassa frequenza degli endpoint maggiori richiederebbe l’ organizzazioni di dimensioni campionarie enormi. Costruendo un endpoint complesso (endpoint composito) viene cosi’ artificialmente aumentata sia la frequenza dell’ evento che il suo rischio basale e la dimensione campionaria viene ridotta in questo modo a limiti accettabili: ma allo stesso tempo con questi artifizi si paga lo scotto di ulteriori problemi interpretativi.
Tali esigenze hanno stimolato la messa a punto di analisi biostatistiche sempre più sofisticate che per poter essere applicate ed interpretate in modo corretto necessitano tuttavia conoscenze adeguate.

Nel presente articolo verranno analizzati alcuni trabocchetti da evitare nell’interpretazione dei risultati dei trial.

End point primario

Quando si progetta uno studio è necessario stimare in via preliminare la frequenza dell’evento studiato sia nel gruppo di controllo che in quello di intervento ed è assolutamente necessario definire a priori quale è l’obiettivo primario che si vuole affrontare. La dimensione campionaria e’ infatti tarata solo sui risultati che ci si aspetta di ottenere per l’ endpoint primario. E’ possibile definire anche obiettivi secondari (che devono essere parimenti sempre pre-definiti). Tuttavia non e’ su questi endpoint che e’ stato tarato il campione e l’ interpretazione della significativita’ statistica dei loro risultati deve essere rivista alla luce di importanti questioni di metodo che verranno di seguito affrontate.

Enfatizzare la “significativita statistica” di un endpoint secondario anche quando questa non non esiste e’ abbastanza facile: basta citare in modo acritico il mitico cut off “p<0.05” . Questo cut off esprime in realta’ la massima quantita’ accettata di errore alfa nei calcoli delle dimensioni campionarie, sempre tarate sui risultati attesi per un solo end-point: l’ end-point primario. Dire p < 0,05 significa che il rischio di definire erroneamente "reale" un risultato in realta’ dovuto al caso deve essere inferiore a 1 probabilita’ su 20: ma molte persone scommettono sui cavalli con questi margini di rischio! [Sleight 2000]

Un recente articolo sull’ efficacia dell’ ezetimibe [Uguccioni 2013] si presta in modo ottimale per chiarire come esempio emblematico i rischi associati all' interpretazione di analisi secondarie e, soprattutto, delle analisi post hoc. [Mills 1993}. Anche alcune linee guida e talune decisioni regolatorie [ATP III 2004, ESC 2011 , ACC/HAH 2013 , Nota 13 2013] non sono esenti da distorsioni interpretative legate a questi importanti aspetti di metodo.

I target

Da anni, per esempio, si propongono ai medici “soglie” ben definite di LDL-colesterolo come assoluta priorita’ da perseguire in prevenzione cardiovascolare.
In realtà nessun trial ha mai specificamente testato se una determinata soglia di LDL-CL possa offrire vantaggi rispetto ad un’ altra nel ridurre il rischio di end-point maggiori , intendendo per tali non tanto i risultati sulle frazioni lipidiche quanto piuttosto gli esiti realmente importanti per la salute del paziente quali: morte da ogni causa, morte coronarica, morte cardiovascolare, infarto, ictus.

Il dogma dei target di colesterolemia LDL si basa infatti sui risultati di quattro RCT in cui sono stati randomizzati farmaci (non soglie ) [HPS 2002, IDEAL 2005, TNT 2005, PROVE-IT 2004] ed e’ quindi fondato su un’ interpretazione distorta (perche’ post hoc e ‘osservazionale’ ) dei risultati di studi sperimentali [Hayward 2006].

Questa posizione, sostenuta anche dall’ AIFA [Nota 13 2012, Nota 13 2013] desta ancor piu’ perplessità quando si consideri che i livelli di LDL-CL suggeriti per gran parte dei pazienti diabetici e per tutti i pazienti in prevenzione secondaria (vale a dire il target di 70 mg/dl di LDL-CL) sono stati ottenuti molto raramente nei pazienti arruolati nelle ricerche su queste categorie di rischio e danno luogo a risultati contraddittori. Questi ‘target’ sono ancor più difficili da raggiungere nei pazienti del mondo reale: una recente esperienza di audit territoriale ha infatti dimostrato in Veneto che solo il 15% dei pazienti in prevenzione secondaria trattati con statine ha ottenuto livelli di colesterolemia LDL inferiori a 70 mg/dl [Battaggia 2013].

Nello studio 4S la mortalita’ e la morbilita’ dei coronaropatici sono state ridotte in presenza di livelli di colesterolo LDL ben piu’ alti (=122 mg/dl) rispetto a quelli raccomandati dai follower del dogma “lower is better” per le stesse categorie di rischio. Questo vale per la maggior parte degli studi che hanno dimostrato efficacia delle statine in pazienti in prevenzione secondaria e nei diabetici “candidati” alla soglia 70 mg/dl di LDL-CL dalla nota 13 [Battaggia 2013].

 
Non appare pertanto giustificato affermare che “ridurre i livelli di colesterolo totale e LDL sia uno degli interventi di maggiore efficacia in prevenzione cardiovascolare ” [Uguccioni 2013] . I pazienti candidati a questi trattamenti dovrebbero essere assegnati non tanto a farmaci “efficaci nel portare a target il colesterolo” quanto piuttosto a farmaci di provata efficacia nel ridurre il rischio di esiti cardiovascolari fatali e non fatali in quanto gia’ sperimentati su questi end-point in studi ben disegnati i cui risultati siano stati correttamente interpretati.

Farmaci ipocolesterolemizzanti diversi dalle statine (quali, ad esempio, ezetimibe o fibrati) non hanno mai provato di poter ridurre il rischio di morte cardiovascolare, coronarica o da ogni causa , come sarebbe lecito attendersi se i vantaggi fossero vincolati al puro abbattimento della frazione LDL. La natura log-lineare del rapporto tra colesterolemia LDL ed eventi , cavallo di battaglia dei sostenitori della teoria “lower is better”[CTT 2005, CTT 2010, CTT 2012 ], e’ stata tra l’ altro e piu’ volte rimessa in discussione [Battaggia 2012, Ray 2012, Donzelli 2012, Newman 2012, Mascitelli 2012 ] ed appare ormai accertato che solo meta’ dell’ efficacia delle statine viene “spiegata” dalle variazioni della colesterolemia LDL [Boekholdt 2012].


Di fatto l’ ultima nota 13, definendo ad ‘altissimo rischio’ la maggior parte dei diabetici, i pazienti in prevenzione secondaria ed i pazienti affetti da insufficienza renale grave, candida al raggiungimento della soglia di LDL 70 mg/dl circa il 7% della popolazione generale [da Bastarolo 2005, dati non pubblicati].
Dato che questo livello di colesterolemia e’ assai difficile da raggiungere utilizzando le statine “meno potenti” e dato che la rosuvastatina e’ stata esclusa come seconda scelta dalle decisioni AIFA nelle condizioni definite “ad altissimo rischio”, di fatto la nota 13 puo’, in teoria, incoraggiare la prescrizione di ezetimibe/simvastatina ad una larga fascia della popolazione generale. Pertanto occorrono evidenze molto solide per sostenere tali raccomandazioni. Purtroppo sull’ effetto netto dell’ ezetimibe nei confronti di endpoint cardiovascolari maggiori non sono disponibili evidenze perche’ nei due unici trial in cui il farmaco e’ stato in tal senso sperimentato (SEAS e SHARP) l’ ezetimibe e’ stato sempre utilizzato in associazione a statine ed utilizzando placebo come comparator.


Le Analisi post-hoc

L’ interpretazione dei risultati dello studio SEAS [SEAS 2010] e dell’ analisi post hoc condotta dagli stessi autori [Holme 2010], citata dal lavoro sull’ ezetimibe prima menzionato [Uguccione 2013], rappresenta un esempio di come i risultati reali di un trial possano essere interpretati in modo ambiguo attraverso analisi formulate ex post (ossia ispirate dai risultati iniziali della ricerca) . Il campione dello studio SEAS era stato tarato per dimostrare se l’ associazione ezetimibe-simvastatina fosse in grado, rispetto al placebo, di ridurre l’ incidenza di un end-pont composito cardiovascolare (morte cardiovascolare o sostituzione aortica o scompenso cardiaco o infarto non fatale o by pass coronarico o interventi percutanei coronarici o stroke non emorragico o angina instabile ospedalizzata) [SEAS 2010].

Lo studio SEAS non ha potuto dimostrare in quella categoria di pazienti (tutti affetti da stenosi aortica) effetti superiori al placebo per questo end-point (HR=0.96, p=0.59) [SEAS 2010]. Questo risultato rappresenta l’ unica risposta certa al quesito per cui SEAS era stato organizzato, in quanto pertinente ai risultati primari. Nell’articolo citato [Uguccioni 2013] e nell’ analisi post hoc eseguita dagli stessi autori SEAS [Holme 2010] , e’ stata invece valorizzata la significativita’ statistica rilevata per un end-point secondario (“ischemic events HR=0.78 p=0.02”), che rappresenta un sotto-componente composito dell’ endpoint primario costituito, a propria volta, da diversi singoli sottocomponenti del medesimo endpoint.

Anche se il cut-off di p necessario a definire “significativo” un risultato corrisponde convenzionalmente al “mitico” valore 0.05 non si ribadira’ mai abbastanza che questo vale solo per i risultati su cui e’ stato costruito il campione, vale a dire quelli che riguardano l’ end-point primario della ricerca.

I calcoli necessari alla definizione della numerosita’ campionaria programmano infatti una probabilita’ di errore nel definire incongruamente “reali” risultati in realta’ dovuti al caso non superiore a 1/20. Questo errore programmato si chiama errore alfa (1/20=0.05) e viene inserito – vedi sopra- nelle formule destinate alla programmazione del “sample size” .

Pertanto la probabilita’ di errore programmata “ex ante” viene tutta “spesa” sui risultati “primari” e non riguarda i risultati “secondari” perche’ non e’ su di questi che e’ stato costruito il campione.


Quando si interpreta la significativita’ statistica per i risultati di endpoint secondari occorre quindi abbandonare il consueto valore di cut off e fissare valori inferiori a quelli abituali.


Se si ignora questa correzione, in presenza di analisi multiple si incorre sistematicamente in un eccesso di errore di tipo I (= rischio di definire ‘reali’ risultati in realta’ dovuti al caso). L’ abbassamento del cut off di p per dichiarare la “significativita’” deve essere proporzionale non solo al numero di analisi eseguite, ma anche al grado di interdipendenza tra tra i singoli endpoint, a sua volta legato alla misura in cui gli stessi pazienti possono aver contribuito a piu’ di un endpoint.
Quando il valore di P viene utilizzato per interpretare i risultati di piu’ di un’ analisi il problema di fondo e’ rappresentato dal fatto che non e’ su queste analisi che e’ stata programmata la dimensione campionaria.

In presenza di analisi multiple l’ errore alfa programmato per l’ endpoint primario (=0.05) deve essere “spalmato” su tutte le analisi da interpretare. Il cut off per la significativita’ statistica potrebbe essere mantenuto ai livelli usuali (=0.05) solo se tutti i pazienti avessero subito tutti gli endpoint . Se invece, come e’ ovvio, non e’ cosi’, piu’ aumenta il grado di indipendenza tra una analisi e l’ altra piu’ il cut off di P necessario a dimostrare “significativita’ statistica” deve essere abbassato [Moye’ 1999 Moye’ 2003 Freemantle 2001].

Da cio’ deriva che il cut off necessario a definire “significativo” un risultato non primario deve essere sempre abbassato sotto il livello 0.05.

Esistono vari metodi per ottenere questi aggiustamenti, e uno dei piu’ usati e’ il metodo di Benjamini e Yekutieli [Yekutieli 1999], che rappresenta un buon bilanciamento tra i pro e i contro di tutte le altre tecniche utilizzate.


Come si osserva nei grafici allegati (vedi figura 1, 2, 3), in nessun caso il risultato dello studio SEA,S dopo correzione del cut off di p per confronti multipli, puo’ essere ancora considerato “significativo”, e cio’ e’ facilmente dimostrabile per tutti gli scenari definiti dalle varie combinazioni dei singoli endpoint SEAS (figure 1 2 3).

Le immagini grafiche sono visibili al link
http://www.scienzaeprofessione.it/public/nuke/downloads/immagini_articolo_ezetimibe.pdf


Le interpretazioni dei risultati dello studio SEAS fornite nella letteratura citata [Uguccioni 2013, Holme 2010] coincidono pertanto con la splendida metafora di Freemantle “should we lock the crazy aunt in the attic? [Freemantle 2001] : la soluzione piu’ facile - in presenza di mancata significatività per l’ endpoint primario come quello osservato nello studio SEAS- e’ infatti rinchiuderlo in soffitta come un parente scomodo, enfatizzando al suo posto i risultati secondari ancora di piu’ se “trovati ex post”.

In un aneddoto scientifico [Atlanta 2013] si legge come un giovane ricercatore -deluso dai risultati non significativi ottenuti da una propria ricerca- si sia rivolto sconsolato al proprio senior (un certo dott. Allen) che per nulla preoccupato invitava il giovane a fare un ‘spedizione di pesca’ finalizzata a cercare significativita’ statistica in qualche analisi ex post per pubblicare poi le conclusioni solo sui risultati risultati ‘significativi’ . Tali analisi sono definite ‘data driven’ ossia condizionate dai primi risultati della sperimentazione .
L’ analisi ex post degli autori SEAS ‘e un’ analisi non-primaria, organizzata per tentare di giustificare un risultato secondario a propria volta misinterpretrato su una significativita’ statistica non reale: in questo senso, pertanto, rappresenta una posizione particolarmente “bizzarra” [Mills 1999 Moye’ 2003].
Un esempio affine  e’ fornito dal memorabile studio sui segni zodiacali pubblicato dai ricercatori ISIS-2 proprio per dimostrare le insidie legate ad una scorretta interpretazione dei risultati non primari, che in questo caso erano rappresentati da un’ analisi per sottogruppi [ISIS-2 1988] . Il trial era stato organizzato per dimostrare l’ efficacia dell’aspirina nella prevenzione degli attacchi ischemici cardiaci fatali . Mentre nella casistica in toto l’ aspirina si era dimostrata efficace, stratificando i pazienti in base al rispettivo segno zodiacale la molecola si rivelava non efficace o addirittura dannosa nei soggetti nati sotto il segno dei Gemelli o della Bilancia. La maggior parte degli scienziati non astrologi ha interpretato i risultati di questa goliardica analisi post-hoc come dovuti all’ effetto del caso. Attribuire importanza clinica ad un risultato fortemente influenzato dall’ effetto del caso non e’ un problema solo accademico perche’ puo’ teoricamente condizionare suggerimenti operativi incauti o sbagliati .

Outcome compositi

L’ ezetimibe e’ un farmaco molto studiato nei suoi effetti ipocolesterolemizzanti, ma poco valutato nei suoi effetti su end-point clinici maggiori. Le uniche esperienze finora condotte in tal senso sono rappresentate dal già citato studio SEAS e dallo studio SHARP [SHARP 2010].
In quest’ultimo trial sono stati reclutati circa novemila nefropatici, circa un terzo dei quali era in dialisi. L’ outcome primario SHARP, rappresentato da un indice composito comprendente infarto non fatale, morte coronarica, stroke non emorragico e rivascolarizzazioni, si è significativamente ridotto del 17% (p=0.0021) .
Questo risultato e’ stato pero’ totalmente condizionato dai risultati ottenuti sugli end-point “rivascolarizzazioni” , unici sottocomponenti dell’ endpoint primario per cui e’ ancora lecito dichiarare "significativita’ statistica". Infatti, contrariamente a quanto affermato da Uguccioni [Uguccioni 2013] in merito alla ‘significativita’’ di due sottoendpoint dell’ analisi primaria ( stroke non emorragico p=0.01 e rivascolarizzazioni da ogni causa p=0.0036), dopo correzione del cut off di significativita’ per confronti multipli (abbassato a 0.0051 ) solo i risultati sulle rivascolarizzazioni coronariche (p=0.0027) e sulle rivascolarizzazioni da ogni causa (p=0.0036) presentano valori di P al di sotto questo limite (Figura 4).

La “coerenza biologica” di questi risultati appare problematica: perche’ l’ associazione ezetimibe/simvastatina nello studio SHARP non si e’ dimostrata superiore al placebo nel ridurre il rischio di infarto (p=0.12) o di morte coronarica (p=0.95) ma allo stesso tempo ha dimostrato efficacia sulle rivascolarizzazioni coronariche (p=0.0027) , un end-point condizionato da pattern patogenetici comuni all’ infarto e alla morte coronarica?

Performance bias

L’ associazione ezetimibe/simvastatina, confrontata con il placebo, non ha dimostrato riduzioni significative a carico della mortalita’ generale, coronarica e cardiovascolare [SHARP 2010].

Cio’ è tanto più rilevante se si considera che i soggetti nefropatici incorrono frequentemente in complicanze cardiovascolari e sono caratterizzati da un’ alta mortalita’ di base (per il follow up di 4.9 anni analizzato nello SHARP nel braccio assegnato a placebo si e’ registrata una mortalita’ del 24,1%). La mancanza di un effetto statisticamente significativo sulla mortalita’ generale nello SHARP era accompagnato da un decremento non significativo del 7% della mortalita’ vascolare e da un aumento parimenti non significativo del 9% della mortalita’ non cardiovascolare .
Queste “incongruenze” possono essere attribuibili alla perdita di cecita’ che frequentemente connota le sperimentazioni farmaco ipocolesterolemizzante / placebo, dove l’appartenenza al braccio di controllo viene smascherata dal mancato abbattimento della colesterolemia LDL. Alcuni autori suggeriscono che in queste circostanze il ricercatore tenda a prestare maggior attenzione ai pazienti assegnati al braccio di controllo, che sarebbero in tal modo piu’ soggetti ad accertamenti diagnostici , coronarografie comprese. Dato che una probabilita’ maggiore di coronarografia si associa ad una probabilita’ maggiore di rivascolarizzazione, la differenza tra braccio di intervento e braccio di controllo potrebbe essere sostenuta non tanto da un abbattimento delle rivascolarizzazioni nel braccio di intervento quanto piuttosto da un aumento nel braccio di controllo [Therapeutic 2010, Donzelli 2012].
Questo tipo di ‘performance bias’ e’ comune nelle condizioni in cui si utilizzano come endpoint (al posto di eventi naturali quali infarti o ictus) eventi ‘physician driven’ quali le rivascolarizzazioni, fortemente condizionati dalle decisioni soggettive dei curanti [Moye’ 2003]. E’ stato anche dimostrato che l’ utilizzo di questi endpoint si associa ad un odds maggiore di risultati significativi [Freemantle 2003] ed e’ probabilmente per questo che vengono spesso utilizzati nei trial.

Eterogeneità

Esempio di un ulteriore trabocchetto in cui è possibile cadere è costituito dall’affermazione che “pur senza significative eterogeneita’ tra i due gruppi” i benefici maggiori in termini di eventi aterosclerotici sono stati ottenuti nello studio SHARP nei pazienti che al momento dell’ arruolamento non erano ancora in dialisi nell’articolo citato [Uguccioni 2013]. Le differenze rilevate negli strati dei pazienti dializzati e rispettivamente non dializzati hanno offerto all’ autore uno spunto per raccomandare di avviare il trattamento con l’associazione Ezetimibe/Simvastatina il piu’ precocemente possibile, vale a dire nei pazienti nefropatici con compromissione renale non ancora avanzata. Questa posizione rappresenta infatti un’ interpretazione del trial non supportata dal risultato del test statistico di eterogeneita’ (p=0.25).
Occorre ricordare che l’ “effetto sottogruppo” –qui: la significativita’ della differenza tra essere in dialisi” o “non essere in dialisi” - deve essere confermato in modo formale da test che confrontino le differenze rilevate tra i diversi strati che qualificano un presunto ‘modificatore di effetto’ ( qui: lo status del paziente si/no nei confronti della procedura dialitica).
Questi test sono basati su analisi di regressione, su analisi della varianza o su analisi di eterogeneita’: nello studio SHARP e’ stata utilizzata quest’ ultima tecnica, dove viene testata l’ ipotesi nulla “le differenze tra i pazienti in dialisi e non in dialisi sono solo dovute solo al caso” .
Che non esista alcuna differenza reale tra i due gruppi e’ infatti dimostrato dal valore della P (=0.25) che indica che la differenza rilevata tra pazienti dializzati e pazienti non dializzati ha una probabilita’ pari al 25% di essere spiegata solo dal caso.

Conclusioni

Studi sperimentali, pur ben organizzati e condotti, possono offrire risultati in grado di dimostrare tutto e il contrario di tutto: a seconda delle modalita’ con cui i risultati stessi sono interpretati [Mills 1993].

Le analisi secondarie rappresentano un importante elemento di criticita’ nella qualita’ dei messaggi da convertire in raccomandazioni di buona pratica clinica. Gia’ nel 1966 Friedman & coll in un memorabile saggio [Friedman 1966] sottolineava quanto fosse opportuno -dopo aver calcolato le dimensioni campionarie sui risultati attesi per un solo endpoint- essere molto cauti nella interpretazione della significativita’ statistica delle analisi non utilizzate nel calcolo del campione [Friedman 1966]. Tuttavia, come sottolinea Moye’ in un altrettanto celebre articolo , la frequenza con cui i ricercatori violano questo fondamentale principio suggerisce che i cauti consigli di Friedman non siano stati mai molto apprezzati [Moye’ 1998].

E’ dunque importante , specie nelle raccomandazioni terapeutiche riguardanti ampi strati delle popolazione, fare riferimento a studi che abbiano obiettivi primari predefiniti costituiti da eventi clinicamente rilevanti poco suscettibili a distorsioni di conduzione .

Il trial IMPROVE-IT [IMPROVE-IT] attualmente in fieri rappresenta una grande sperimentazione su pazienti affetti da sindrome coronarica acuta , su cui l’ associazione ezetimibe/simvastatina viene confrontata con la simvastatina usata da sola. Solo i risultati di tale studio ( i cui risultati ad interim non sono stati ancora resi pubblici e che verra’ completata entro l’anno in corso), forniranno attendibili prove sull’ efficacia netta dell’ ezetimibe sugli endpont maggiori (almeno per la speciale categoria di pazienti ad altissimo rischio rappresentata dai pazienti con Sindrome coronarica acuta).

Alessandro Battaggia e Luca Puccetti



IMMAGINI E GRAFICI CITATI NEL TESTO





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